Da quell’11settembre, in due decenni, la morte della politica
Vi ricordate quel bel film collettivo proiettato solo un anno dopo l’«11 Settembre», e chiamato proprio così? 11 autori, i registi fra i più famosi del momento, di 11 diversi […]
Vi ricordate quel bel film collettivo proiettato solo un anno dopo l’«11 Settembre», e chiamato proprio così? 11 autori, i registi fra i più famosi del momento, di 11 diversi […]
Vi ricordate quel bel film collettivo proiettato solo un anno dopo l’«11 Settembre», e chiamato proprio così? 11 autori, i registi fra i più famosi del momento, di 11 diversi paesi (Francia, Egitto, Bosnia, Burkina Faso, Gran Bretagna, Messico, Israele, India, Giappone, Usa), ognuno dunque con un’idea differente su quanto quell’avvenimento verificatosi a New York gli aveva suscitato, con una pellicola in cui ognuno aveva a disposizione 11 minuti, 9 secondi, un fotogramma: 11/9/01, la fatidica data, appunto.
Idee/immagini diverse, perché diverso era stato l’impatto dell’accaduto, a seconda della diversissima condizione geografica, sociale, culturale di chi ne era stato investito. E così il filmato di Ken Loach parlava solo di un altro, e per lui ben più grave 11 settembre, quello del golpe cileno, provocato dall’imperialismo americano. Mentre la giovanissima regista iraniana Samira Makmalbaf si immedesima già nel nuovo presente: una sgangherata scuola al confine con l’Afghanistan e una maestra che chiede ai bambini, il 12 settembre 2001, se sapevano dirgli cosa era accaduto il giorno prima e risultava che quanto quel giorno li aveva colpiti era la morte del nonno di uno di loro nel pozzo pericolante del campo rifugiati dove si trovavano. E poi, fra i tanti spezzoni di filmato che ricordo bene, quello di Sean Penn, su un vecchio vedovo solitario e povero che vive a New York in una stanza buia dalla cui finestra arriva, inaspettato, un raggio di sole che gli riporta un momento d’allegria, prima sempre oscurato da una delle incombenti Torri gemelle.
Mi domando oggi, a distanza di 20 anni, se quella relatività storica su cui gli undici registi avevano voluto richiamare la riflessione avrebbe lo stesso senso. Io penso di no, non perché non sia vera – mi pare anzi che lo sia anche di più, la diversità di condizione e dunque di destino degli abitanti della Terra essendo nel frattempo cresciuta – ma perché oggi mi pare si sia aggiunto un dato più comune fra tutti noi umani: siamo tutti più spaesati, nessuno ha più le certezze spavalde di allora, tutti più colpiti e coinvolti di quanto siamo mai stati da accadimenti comuni cui nessuno più sfugge, sebbene le sofferenze che ne derivano restino ineguali.
Forse basterebbe chiamare in causa il Covid, che ci ha abbracciato tutti, senza scampo. Ma anche l’accelerazione che la comparsa di quel virus ha prodotto sulla comune presa di coscienza che la Terra tutta si è ammalata gravemente e il nostro mondo – sia pure percepiti come mondi diversi – potrebbe scomparire. L’ecologia ha ancora scarso riflesso in politica (ma produce un silenzioso e angosciante interrogativo in ognuno di noi).
E infine: quanto sta accadendo in Afghanistan, con la puntualità di un disegno storico accuratamente progettato proprio per celebrare la ricorrenza ventennale del’11 settembre 2001. Che ci fa sentire tutti immersi in una crisi politica e sociale senza precedenti: nessuno è più certo del valore del proprio sistema, tutte le comunità appaiono divise, frantumate e così i valori, i modi di vita, la fiducia, e le certezze. I nemici di allora non sono più gli stessi, o lo sono ma sotto diverse spoglie, più difficili da individuare.
Anche per noi, sinistra: dove sta l’imperialismo americano che denuncia Ken Loach, ora uscito con la coda fra le gambe da Kabul e che però rilancia con il suo apparentemente mite nuovo presidente, quando avverte che se ne è andato perché ora gli interessa il nuovo «nemico», la Cina più che l’Afghanistan Vuole occupare anche quel paese come ha fatto con l’Afghanistan? Nessuno sembra preoccuparsi di una così grave dichiarazione, siamo contenti che le truppe Nato si siano ritirate. E ora con i talebani che ci facciamo?
Gridare contro di loro è necessario oltre che giusto ma si rischia di invocare una nuova spedizione militare punitiva. Bisogna trattare e combattere contemporaneamente a fianco delle fantastiche femministe afghane ( «un coraggio del genere» ha titolato il manifesto): ma da qui come si fa, possiamo trasformarci tutti in Gino Strada? O far sì che tutte le donne afghane abbandonino il loro paese? E poi, che modello di società proponiamo: la magnifica democrazia occidentale, ormai svuotata di contenuto, una larva, che cancella la solidarietà con i migranti e che non ha in agenda i due contenuti decisivi: l’uguaglianza e la pace? Certo meglio del modello proposto dal presidente dello Stato federale del Texas o di Orbán, non parliamo di Trump o Bolsonaro! E allora dobbiamo difendere il nostro glorioso Occidente?
Smetto di pormi interrogativi che so essere di tutti, non solo di noi che ci continuiamo – e per fortuna – a definirci di sinistra. Perché in questi 20 anni il mondo è cambiato radicalmente: ho davanti l’immagine dell’assalto dei riots al Campidoglio Usa, a inizio del 2021, e di Biden che denuncia così la rivolta: «Questo terrorismo interno è il più pericoloso», in un’America spaccata, dentro una guerra civile strisciante, violenta e razzista come accusa Black Lives Matter.
E noi stentiamo ad orientarci perché la cosa più grave che è accaduta ovunque è che ci è stata – a tutti sia pure in forme diverse – rubata la politica, quella risorsa straordinaria che fino a non molto tempo fa ci aveva consentito una sia pur relativa conoscenza del mondo, la capacità di individuare con chiarezza amici e nemici, soprattutto di progettare alternative.
Nemmeno i Talebani, ora che si sono insediati a Kabul, nonostante la loro arrogante certezza di parlare a nome di un profeta sanno più bene che fare, ora che scoprono quanto è cambiato lo stesso Afghanistan mentre loro erano nascosti negli anfratti del loro frantumato paese.
Che facciamo, allora? C’è una certezza: questa ricorrenza spinge tutti a ripensare al mondo, e dunque a dare alla riflessione sulle dimensioni della crisi mondiale che attraversiamo, priorità assoluta.
Perché solo se ne acquisiamo piena consapevolezza potremo capire e prendere atto che è l’uccisione della politica, la vera «ricaduta» dell’11 Settembre e conseguenza di questo ventennio di globalizzazione che poco abbiamo capito, è la cosa più grave che è accaduta.
E però è ancora possibile portare riparo, io penso. Difficile, ma possibile. E speriamo che a rianimarla sia qualcosa che somiglia a quanto ognuno di noi pensa sia «sinistra» a farlo per primi. Essere accomunati dallo spaesamento non crea infatti comunità, può anzi produrre selvaggia violenza.
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