Internazionale

11.09.2001, le famiglie delle vittime a Montreal: «No a vendette, vogliamo la verità»

Intervista Terry Rockefeller dell’associazione «September 11th Families for Peaceful Tomorrows»

Pubblicato circa 8 anni faEdizione del 12 agosto 2016

Incontriamo Terry Rockefeller in occasione della sua partecipazione alle iniziative del Forum Sociale Mondiale di Montreal. Dal 2002 lavora con «Since September 11th Families for Peaceful Tomorrows» (www.peacefultomorrow.org) ed è membro del consiglio direttivo di Amnesty International Usa.

Sono passati 15 anni dall’attacco alle Torri, cosa chiedete oggi?
Sapevamo che usare questo crimine internazionale per motivare una guerra avrebbe portato ad una violenza incalcolabile, una guerra senza fine. Chiediamo verità sul perché di questi attacchi da chi era responsabile allora. Voglio giustizia ed un processo regolare, perché mia sorella non è morta per caso, è stata assassinata in conseguenza di un atto di guerra. Ed il mondo deve sapere che ad oggi non è stato svolto alcun processo. George W Bush aveva istituito commissioni militari, Obama prima annunciò l’intenzione di sostituirle con corti federali e poi fece un passo indietro, impegnandosi per un «miglioramento» delle commissioni militari. Il punto è che la gran parte delle documentazioni è segreta, e che i 5 ritenuti responsabili dell’attacco sono stati torturati. Io voglio verità e giustizia perché a 15 anni di distanza la ragione per la quale non si svolge un processo pubblico è perché si vuole proteggere chi si è reso complice e responsabile della tortura. Ci dicono che la segretezza è dovuta alle implicazioni per la sicurezza, ma come, se alcuni di quei documenti erano stati anche pubblicati sul New York Times!

In molti affermano che proprio perché le confessioni sono state estorte sotto tortura ai 5 non dovrebbe essere comminata la pena di morte.
Così deve essere, anche perché se i 5 fossero processati presso corti federali, per reati confessati sotto tortura verrebbero applicati sconti di pena. Non vogliamo vendetta, preferiamo la verità. Pochi mesi fa abbiamo iniziato ad andare a Guantanamo, ora possiamo farlo avendo ottenuto il riconoscimento come organizzazione non governativa. Arrivi a Guantanamo e ti mettono dietro un vetro antiproiettile, puoi sentire le conversazioni con 40 secondi di ritardo, così se viene detto qualcosa di confidenziale, ti interrompono la linea. Eppoi quando vai di persona ti rendi conto di quanto sia difficile arrivare lì, della distanza, dell’isolamento, del fatto che anche le cose più semplici sono complicate. Ora dicono che ci saranno processi tra 5 anni, ne sono già passati 4 da quando sono iniziate le procedure della commissione militare, ma ogni anno il Congresso approva una legge che esclude la competenza delle corti federali. Ed è anche il «sistema Guantanamo» a rendere difficile il perseguimento della giustizia.

Accanto alla richiesta di verità e giustizia sei attiva accanto ai movimenti sociali iracheni. Cosa ti ha spinto ad andare in Iraq?
Un ragionamento semplice: affrontare la violenza del 9/11 con un impegno di nonviolenza è un modo per rompere il ciclo della Guerra e impedire la vendetta e la rappresaglia, Pratichiamo la nonviolenza come mezzo di attivismo politico. Avevamo iniziato ad andare in Afghanistan all’inizio per incontrare i familiari delle vittime della guerra. Quando venne annunciata la Guerra all’Iraa siamo andati per incontrare attivisti per riportare le loro storie, la loro opposizione all’occupazione, e sapere da loro qual è la loro idea di Iraq del futuro. Impegnarsi accanto agli iracheni in particolare i giovani significa rispondere alla violenza con la comprensione e l’attivismo. Ed è importante per me raccontare le responsabilità degli Stati Uniti, nella violenza, nella corruzione ed il sostegno a politicanti che hanno aggravato le tensioni interetniche. Non potevo oppormi alla guerra senza oppormi ai risultati della guerra. Ed è quindi incoraggiante vedere la crescita del Forum Sociale Iracheno, celebrare le prime grandi vittorie, da quelle conseguite dai sindacati per nuove leggi del lavoro, a quelle della campagna «Save the Tigris» che di recente è riuscita a far dichiarare le paludi del Tigri minacciate dalla diga di Ilisu, patrimonio comune dell’umanità dall’Unesco. Ma queste cose il movimento pacifista non le sa. Anche per questo sono qua a Montreal.

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