Camminando in direzione della Biennale, di fronte alla fermata Zattere sul retro della Chiesa della Pietà, troverete il Padiglione dello Zimbabwe. Una posizione che sul cammino delle sedi di una delle più prestigiose manifestazioni internazionali di arte al mondo, ne rimane esterna permettendogli di trasformarsi – in occasione della serata curata dal progetto soud system Pungwe durante la settimana di apertura – in un vibrante incontro dell’acclamata presenza africana e diasporica a Venezia.

I did not leave a sign? (Non ho lasciato un segno?), sesto padiglione dello Zimbabwe alla 59sima Biennale di Venezia, invita ad interrogarsi sulla relazione tra natura e tecnologia, saperi ancestrali e tecnologia, memoria e oblio attraverso l’elaborazione del lutto di una epoca (forse) post pandemica. Si legge nel testo curatoriale: «Amiamo e abbracciamo la morte. Ci prendiamo cura dei vivi. Ci prendiamo cura dei morti. (…) Questo è un manifesto di amore e crisi».

L’esposizione, curata da Fadzai Veronica Muchemwa, con commissario Raphael Chikukwa, presenta Ronald Muchatuta, Wallen Mapondera, Kresiah Mukwazhi e Terrence Musekiwa. Nelle parole della curatrice, vuole «abbracciare diversi regni di conoscenza e modi di conoscere» raccontati nei dialoghi con gli artisti e saggi di critici e curatori africani nelle novantotto pagine del catalogo. Il format sembra opporsi alla logica usa e getta dei grandi eventi internazionali d’arte. La Biennale, che durerà fino al 27 novembre, sembra infatti esistere solo nella settimana di apertura. Ad articoli entusiasti, ha fatto seguito la sua demolizione, per poi cadere nel dimenticatoio ed essere sostituita da documenta15, che ripete la stessa via. Nel mezzo, qualcuno si è accorto della 14esima Biennale di Dakar.

Nelle quattro sale si mescolano i lavori degli artisti. Le sculture di Wallen Mapondera, fatte di contenitori di uova in cartone richiamano il simbolismo della vita. L’artista ha perso ed è divenuto padre lo scorso anno, ma anche la componente tattile dei materiali. Una caratteristica che sembra accomunare molti artisti africani a Venezia. Le sculture presentano dei nodi stretti, chiusi su se stessi, quasi a non voler lasciar passare nulla, ma anche delle ferite, o una vagina. Un lavoro che esprime profonda intimità. La relazione con la morte, lontana da quella occidentale, viene presentata come parte della vita, determinandone la continuità. E’ evidente l’influenza della concezione del tempo della epistemologia Shona. Nessuno nasce e muore – semplicemente gira intorno.

Foto Laura Burocco

Il concetto di tempo, e velocità implicita nel suo consumo, torna nelle parole di Ronald Muchatura, che definisce la sua carriera «un viaggio, e non una maratona». Rimanda alla lettera di Denilson Baniwa dopo la morte dell’artista indigeno Jaider Esbell presente in Arsenale: «rallento ancora di più, al punto che (il mio lavoro) sia un jogging e non un triathlon». Nella sua produzione Muchatura esplora una questione sociale molto sentita in Zimbabwe: la diaspora. L’artista esamina l’effetto di lasciare la propria patria fisicamente, spiritualmente e psicologicamente e parla della creazione di una Zimtopia che pone in relazione con quello che definisce Zimbabwean Gaze. Ne parla da osservatore interno, risiedendo lui stesso da tempo in Sudafrica. Muchatura, nel catalogo, si dice infatti sorpreso di essere stato selezionato come rappresentante del suo paese, pur non vivendo in Zimbabwe da anni.
La morte come «una progressione verso un diverso stato dell’essere» accompagna il concepimento del lavoro di Kresiah Mukwazhi. Le sue sculture fatte di reggiseni e corsetti, ma anche di armi, rappresentano una doppia lotta. Quella delle donne contro la sottomissione patriarcale e le aspettative sociali, come rivendicazione di autonomia ed emancipazione del corpo femminile in Africa; e quella della guerra di resistenza dello Zimbabwe contro il colonialismo, la Chimurenga del 1896 e del 1966. Secondo l’artista ‘la nudità è una forma di protesta nel contesto africano e il reggiseno diviene un oggetto di resistenza». Per quanto l’artista si dica disinteressata al femminismo e definisca suo padre come il suo femminismo «to me, he was my feminist» – è possibile nel suo lavoro vedere un autonomo femminismo nero capace di «ridicolizzare lo sguardo maschile e pornografico». Resta da chiedersi quale sia, e se esista, la differenza tra tali sguardi nel continente africano o in Europa.

Padiglione Zimbabwe, foto di Laura Burocco

Muchemwa coglie la contraddizione tra la secolarizzazione del sapere («menti scientifiche e tecniche che si sono ribellate al centro cultuale della Fede») e il suo fallimento («la scienza e la tecnologia non sono dopotutto infallibili») , e l’attuale movimento di ritorno a una componente spirituale. Nel catalogo, la potente descrizione di Terence Musekiwa del suo lavoro, evidenzia i diversi regni di conoscenza e modi di conoscere. Musekiwa utilizza cavi internet e condensatori elettrolitici per dar corpo ai suoi lavori. Si tratta di arazzi e sculture che impersonano figure di miti ancestrali. Dice l’artista: «Approfondisco le relazioni tra il mondo fisico e quello ancestrale, l’importanza dell’equilibrio tra queste dimensioni e le conseguenze dello squilibrio». Mhondoro e Vatongi Pamweya, che rimandano alle maschere Makishi e a tramandati racconti orali, mettono in comunicazione futuro e passato nel presente. Pur non apprezzandone la definizione, la lettura occidentale lo inquadrerebbe forse come afrofuturista.

Un altro elemento che accomuna la maggior parte dei lavori è l’utilizzo di nomi in lingua Shona. Se in parte è una complicazione del dialogo, dall’altra è una legittima dichiarazione di non richiesta di legittimazione. Nelle parole della curatrice,
«Navighiamo tra memorie intergenerazionali, ecologiche e mitiche sepolte nell’oblio della colonizzazione, del genocidio, dell’emigrazione, dell’assimilazione e dell’appropriazione ( … ) Accettiamo il dolore come una forma di lode e di celebrazione per ciò che abbiamo perso, e ci addoloriamo senza scusarci a modo nostro».

Un manifesto di amore e crisi, strabordante di vita, in cui Thomas Mapfumo richiama tutti a intrecciarsi in gioiose danze capaci di trasformare Venezia in qualcosa di momentaneamente diverso.