Gli opposti veti incrociati stanno facendo convergere i partiti verso una legge elettorale ispirata al modello tedesco, sia pure con negative modificazioni: sicuramente l’esclusione del voto disgiunto, che mira a concentrare i voti sui partiti maggiori; più difficilmente l’introduzione di un premio di maggioranza alla lista che supera una certa soglia (il 40%).

Per dare un giudizio ponderato occorrerà, dunque, aspettare la definizione della disciplina nei dettagli, ma a sinistra le prime reazioni sono già di segno diverso. A quanto si legge sui giornali, mentre Sinistra italiana e Articolo 1 guardano con interesse a quel che sta accadendo, Campo progressista manifesta una posizione nettamente critica. Coerentemente con la posizione favorevole alla revisione costituzionale renziana, Pisapia è ostile all’evoluzione in atto, perché – dice – la legge alla tedesca «condurrà molto probabilmente a un governo di larghe intese». Il governo di coalizione – l’inciucio! – era esattamente lo spauracchio agitato da Renzi a sostegno della revisione costituzionale che, unitamente all’Italicum, avrebbe finalmente dovuto dare al Paese un governo «la sera stessa delle elezioni».

Lo sforzo maggiore compiuto da chi, nei lunghi mesi della campagna referendaria, si è impegnato ad argomentare un voto consapevole in favore del No è stato proprio combattere la fallacia di questo argomento. Partendo dalla constatazione oggettiva di una società divisa in tre grandi orientamenti politici (Pd, M5S, destra), tutti oscillanti intorno al 30% delle preferenze, in ogni occasione si è ripetuto quanto risulti sterile «gonfiare», attraverso meccanismi maggioritari, un consenso elettorale minoritario facendolo diventare maggioranza in Parlamento. L’antica ascendenza magica del diritto continua evidentemente a farsi sentire, se in tanti, anche a sinistra, continuano a credere che una formuletta (la formula elettorale) possa realmente trasformare una minoranza in maggioranza: vale a dire, una cosa nel suo opposto.

Gli ultimi venticinque anni dovrebbero aver insegnato che la trasformazione artificiale di minoranze in maggioranze finisce solo col costruire giganti con i piedi d’argilla – forti in Parlamento, deboli nella società – privi della capacità di creare consenso popolare intorno alle decisioni imposte dentro il Palazzo. Se guardiamo alla storia repubblicana, emerge con evidenza che il momento di massima governabilità – cioè il momento in cui la politica ha saputo trasformare la società più in profondità – si è avuto quando massima è stata la capacità di rappresentare le articolazioni dell’elettorato. Dalla riforma della scuola media (1962), alla istituzione del Servizio sanitario nazionale (1978) – passando per la nazionalizzazione dell’energia elettrica (1962), la previdenza sociale (1969), l’abolizione delle gabbie salariali (1969), i diritti dei lavoratori (1970), il divorzio (1970), la legislazione sul referendum (1970), le Regioni (1970), la progressività fiscale (1974), il diritto di famiglia (1975), la legge urbanistica (1977), l’aborto (1978), la chiusura dei manicomi (1978) – si è assistito a provvedimenti assunti sempre allargando l’area della maggioranza, dapprima nella prospettiva dei governi di centro-sinistra, poi in quella del compromesso storico. Per individuare il momento in cui la storia repubblicana imbocca la parabola discendente, occorre guardare al Congresso Dc del 1980, con il noto preambolo che, riesumando la logica dell’esclusione politica, chiudeva l’esperienza voluta da Moro e Berlinguer e trasformava il centro-sinistra nel pentapartito.

Oggi la società è divisa come, se non più, che nel dopoguerra. Le diseguaglianze sono profondissime: nonostante l’Italia sia ancora una delle dieci maggiori potenze economiche del mondo, è oramai al terzo posto in Europa per numero di poveri. In questa situazione occorre riscoprire la valenza profonda della funzione parlamentare, che è far dialogare i diversi, non metterne uno in condizione di prevalere sugli altri. La legge deve tornare a essere il frutto di una discussione volta a costruire il massimo consenso possibile intorno alle soluzioni prospettate, non l’imposizione – magari a colpi di decreti-legge – di una parte sulle altre. Solo così si può sperare di riuscire a incidere davvero sull’esistente.

Oggi, questa consapevolezza per molti è andata perduta. Una legge elettorale che costringa i diversi a dialogare può contribuire a farla riemergere. Per questo ci siamo battuti, perché il 4 dicembre non si affermasse un sistema istituzionale definitivamente basato sulla contrapposizione e sull’esclusione.

Ora, è il momento di iniziare a ragionare nella logica del dialogo e dell’inclusione. Il cambio di paradigma culturale è sempre difficile, anche perché difficilmente i risultati arriveranno a stretto giro. Ma chi fa politica dovrebbe sapere che seminare oggi è condizione per poter raccogliere domani.