«Le parole contano, sono importanti. Assieme alla musica diventano bellezza e hanno valore. Sciolgono le emozioni di chi ascolta. Ecco perché al concerto di un musicista c’è più pubblico che al comizio di un politico». Così si esprimeva la diva saharaui Mariem Hassan qualche anno fa, sintetizzando in poche battute una indiscutibile verità. E con l’avvento del digitale le reti sociali hanno amplificato all’inverosimile l’impatto artistico che racconta le vicende legate alla violazioni dei diritti umani. Lo raccontano per bene le stagioni della primavera araba, in particolare l’Egitto di piazza Tahrir con Irhal di Ramy Essam che contribuì alla caduta di Mubarak. La stessa cosa sta accadendo nell’Iran travolto dalla seconda metà di settembre dalle proteste della popolazione scaturite a seguito dell’omicidio di Mahsa Amini. È Baraye, firmata dal cantante Shervin Hajipour, la colonna sonora dei drammatici eventi in corso. E come ogni canzone ben fatta, porta con sé una storia che diventa epicentro di emozioni a non finire, coinvolgendo milioni di persone. Baraye, letteralmente traducibile in lingua Farsi come «per», è stata scritta dall’artista pop classe 1997 in contemporanea con l’insorgere dei movimenti di rivolta. Il brano è stato pubblicato il 28 settembre e il giorno dopo Hajipour è stato arrestato dalla polizia iraniana per essere poi rilasciato alcuni giorni dopo. Nonostante sia stato obbligato a rimuovere il brano dai propri canali social, l’impatto di Baraye è stato a dir poco esplosivo. Dopo solo 48 ore dalla diffusione in rete aveva già raggiunto 40 milioni di visualizzazioni, per poi diventare virale a livello planetario.

PATRIMONIO COMUNE
Baraye ha smesso di essere una canzone di proprietà dell’autore, divenendo patrimonio comune degli iraniani contrari al regime, sia in patria che all’estero. Tornando, in un emotivo gioco di specchi, da dove veniva. L’idea di Shervin Hajipour, semplice e geniale al contempo, è stata quella di scrivere il testo pescando dai tweet e dai post di donne e uomini che avevano aderito alla ribellione e palesato il loro dissenso anche in rete. La canzone parla di cose semplici e immediate, patrimonio di chiunque, rintracciabili in una quotidianità fatta di speranze, idee e bisogni negati: dal bramare una vita normale all’esigenza di un sorriso, passando attraverso il peso di una economia autoritaria che non ha cuore nel vedere bambini frugare tra la spazzatura, giungendo agli intellettuali in carcere e al desiderio represso di una ragazza che avrebbe voluto essere un maschio, per terminare nella ricerca di libertà, evocata ossessivamente al termine del testo. Il tutto mentre sottolinea il dispiacere per la bellezza sfiorita degli alberi rintracciabili a Vali-‘asr, la principale arteria stradale di Teheran, oltre alla probabile prossima estinzione dell’ultimo esemplare di ghepardo iraniano, nato nel Pardisan Park della capitale lo scorso aprile e che, a dispetto del nome Pirouz che significa «vittorioso», davanti a sé ha un futuro fosco.
Sul traino della tragica e ingiusta vicenda di Mahsa Amini, tratta in arresto per un uso «improprio» dell’hijab da parte della polizia morale iraniana e della relativa campagna social che ha visto il taglio dei capelli in diretta da parte di donne di tutto il mondo, la potenza gentile e senza controllo delle liriche di Hajipour, ha raggiunto vertici non preventivabili, addirittura stimolando la creazione da parte della Recording Academy, per i prossimi Grammy Award, di una categoria apposita denominata «Best Song for Social Change», destinando il premio a una canzone che abbia avuto una profonda influenza e impatto sociale. Viaggiando attraverso social come TikTok, Instagram e Twitter grazie agli hashtag di riferimento #baraye #mahsaamini #iranprotest #opiran e #iranregimechange, la capacità di coinvolgimento dell’incisione è stata così straripante da far aderire le più importanti stelle della musica iraniana. Parliamo di profili artistici della vecchia e nuova guardia che non hanno esistato a prendere posizione, condividendo la propria opinione con i milioni di follower in rete che ognuno di loro può vantare.
Tra i primi a schierarsi Dariush Eghbali, noto semplicemente come Dariush, una vera istituzione musicale nel paese. Nato nel 1951, a venti anni diviene una stella e da quel momento in poi inanella decine di dischi e un attivismo sociale che lo porterà in carcere per le sue canzoni di stampo politico, affermandosi come icona dei giovani della rivoluzione del 1977. È ancora attivissimo e temuto per il suo impegno, al punto che domenica 9 ottobre il concerto che doveva tenere all’Hammersmith Apollo di Londra è stato annullato a seguito di una telefonata che annunciava la presenza di una bomba, poi rivelatasi infondata. Compagno di battaglie sociali e d’arte di lungo corso di Dariush è Ebi: recentemente ha condiviso le proteste in favore dei manifestanti, assieme all’amico. Ebi, dopo una prima parte di carriera in formazioni locali di minor rilievo, dagli anni Settanta ha iniziato un percorso a suo nome dove ha abbinato una voce vellutata e potente a testi in favore della condizione femminile e che avversavano il regime. Anch’egli naviga ancora sulla cresta dell’onda, come dimostra la vasta eco generata dalla decisione di cancellare il suo concerto a Vancouver il 13 ottobre.

NESSUN TIMORE
Anche le grandi dive non hanno avuto nessun timore ad esporsi. Googoosh, nome reale Faegheh Atashin, è in giro anche lei da fine anni Sessanta. Oltre ad imporsi a lungo come la numero uno al femminile in musica, ha avuto anche una carriera cinematografica non male. Icona di costume per le giovani iraniane della sua generazione, ha abbinato a questo aspetto una militanza di peso che ha pagato con il carcere. Tra le varie battaglie sostenute, da sottolineare quella contro l’omotransfobia. Leila Forouhar, anch’ella cantante e attrice, ha un percorso artistico e sociale simile a quello di Googoosh. Nonostante da decenni viva fuori dall’Iran, non ha esitato a dar voce ai fatti in corso e, come Ebi, ha cancellato per solidarietà il suo concerto a Toronto del prossimo 12 novembre. Homayoun Shajarian, figlio del leggendario maestro di musica tradizionale Mohammad-Reza Shajarian, è un affermato cantante e polistrumentista di stampo tradizionale e global south. Vive ancora in Iran. Come il padre che subì la censura del regime nel 2009 per la canzone politica Language of Fire, anche il figlio persegue la stessa linea nonostante gli ostracismi che subisce in patria. Sostegno anche da una giovane e indiscussa stella come Donya Dadrasan, che dall’età di dodici anni si è trasferita in Australia seguendo la famiglia. Muovendosi in ambito electropop è da tempo una delle icone delle coetanee in patria, ruolo che lo scorso marzo ha evidenziato ancor più con il brano Amoo Hassan dove canta della ricerca di un dialogo con le forze di polizia. Non è dunque una sorpresa che Donya nei social si sia esposta aderendo al taglio pubblico dei capelli, né tantomeno quando ha pubblicato una straziante versione di Baraye.
Tra le innumerevoli adesioni da parte di una pletora di artisti di stampo rock, hip hop, tradizionale ed electro, segnaliamo per la bellezza della performance vocale Nahal Ladani, residente in Nord America e autrice di una impressionante versione di Baraye. Che, nel frattempo, ha preso una forma fisica, nelle liriche incise sui muri del quartiere Ekbatan di Teheran da una mano ignota, ma decisa a manifestare un dissenso personale e collettivo.