Per gli amanti e cultori della Zur Farbenlehre – ovvero la teoria dei colori inventata dallo scrittore tedesco Johann Wolfgang von Goethe con un omonimo studio edito nel 1810 – che siano al contempo tifosi delle nostre compagini olimpiche, la domanda chiave per l’imminente Paris 2024 riguarda senza dubbio l’azzurro dell’Italia, divaricandosi in duplice quesito. Da un lato quale azzurro scelto e adottato? Azzurro cielo, blu oltremare, celeste scuro, cobalto pastellato, turchese opaco o altro ancora? Dall’altro sarà un azzurro uniforme per ogni maglia, tuta, canotta, T-shirt, camiciotto, body, nelle molteplici discipline che esigono spesso tagli, foglie, tessuti, filati e oggi tecnologie in contrasto tra i vari sport? La doppia risposta – viene da ribadire – sarà fornita dagli sponsor principali e dai produttori di moda sportiva. Ma, prima di parlare e di colori azzurri intesi quale valore aggiunto (per gli atleti in gara e per i tifosi sulle gradinate, sventolanti però il tricolore), occorre fare un passo indietro verso l’ormai ‘lontano’ ricordo di un recentissimo media event.

Gli ultimi Europei di calcio, aldilà delle spallettiniane delusioni, hanno lasciato e amplificato la sindrome del calciobalilla: avete mai visto i birilli dell’altrimenti detto bigliardino o calcetto con le due squadre in colori diversi da Rosso e da Blu? Certamente no! E questa era anche la visione negli stadi e sui teleschermi delle due squadre in campo, sempre rigorosissimamente monocromatiche nelle tre componenti essenziali – maglia, pantaloncini, calzettoni – delle divise nazionali. Si tratta da un lato di una nuova assurda regola UEFA – inesistente per afc, CAF, COCAFAF, conmebol – e di una prevaricazione da parte dei loghi globalizzanti dell’abbigliamento sportivo, che, in tal modo, cancellano, mortificano, vituperano il patrimonio culturale di ogni Stato sovrano, per quanto concerne i colori sportivi ufficiali, ricavati in primis dalle bandiere e talvolta in seconda battuta da stemmi e simboli di antiche tradizioni araldiche fatte proprie, in seguito, dalle moderne monarchie e spesso rimasti indenni con i passaggi ai sistemi repubblicani.

Le bandiere nel mondo sono all’80% di tre colori e dunque la tripartizione sul vessillo rettangolare ben si adatta a essere riportata sulle sopracitate divise; un esempio classico: il tricouleur francese è storicamente adattato, nel calcio, alla maglia (bleu), ai pantaloncini (blanc) e ai calzettoni (rouge); ma agli Europei i Galletti han sempre giocato con il triste full blue (o full white come seconda divisa). Per altri Stati, come l’Italia, i colori olimpici (e sportivi in genere), hanno altre derivazioni: non dal Tricolore depositato a Reggio Emilia, dove viene issato per la prima volta dai rivoluzionari il 7 gennaio 1797. Di tricolore e azzurro ‘storici’ oggi però si parla poco non si sa bene per quali timori reverenziali, tranne forse le antiscientifiche istanze revisioniste delle destre. L’azzurro in Italia – è bene ricordarlo – ha origini sabaude in quanto è dal XVIII secolo il vessillo su cui campeggia lo scudo rossocrociato della real casa; spetta a Carlo Alberto, sensibile alle istanze risorgimentali moderate, sostituire il 12 marzo 1848 il cosiddetto Blu Savoia con il manto verde-bianco-rosso sventolato, mezzo secolo prima, dalla Repubblica Cisalpina sull’onda dell’entusiasmo per la presa della Bastiglia a Parigi.

La rivoluzione francese, a sua volta, elimina il drappo blu con gigli d’oro a favore del tricouleur amato da tutti: non a caso nel Cile fascista del dittatore Augusto Pinochet, un assurdo gioco/referendum – voluto dallo stesso generale golpista per rafforzare l’identità nazionale in chiave ultra-patriottica – sulla più bella bandiera del mondo, ha quale netta vittoria il blu-bianco-rosso di chi ha, dal 1789, come motto il Liberté- Egalité-Fraternité. Pinochet per sminuire il senso della propria metaforica sconfitta, ma che in parte già prelude all’inaspettato no del referendum contro la sua rielezione perenne (a sancirne progressivamente la fine ingloriosa), dichiara che il popolo avrebbe confuso la propria bandiera cilena con quella dell’Hexagone dai colori identici, dimenticando (o facendo finta) che proprio lui o i suoi scagnozzi all’epoca fanno indossare alle loro nazionali sportive la seconda divisa. La prima infatti sarebbe la maglia rossa e rosso è il colore della sinistra e del socialismo, il medesimo rosso delle ‘furie rosse’ che lo stesso Francisco Franco vieta per molti anni alla ‘sua’ nazionale spagnola o lo stesso rosso che proprio Adriano Panatta a Santiago del Cile indossa nella finale di Coppa Davis (1976) per gioco, per sfida o per sberleffo (in loco l’allora TV a colori preferisce trasmettere il match in bianco e nero).

Tornando all’Italia, l’azzurro della polo abbinato al bianco e al nero shorts e socks (all’inizio per il semplice fatto che maglifici, lanifici, cotonifici, per tali capi, come anche per esempio per il nero degli ombrelli, non prevedono altri colori per ragioni economiche e limiti tecnologici) diventa la tinta olimpica estesa a tutte le discipline agonistiche in cui si possono sfoggiare le colorazioni prescelte: impraticabile ad esempio per scherma e pallanuoto (all’inizio anche nel tennis, dove Winbledon rimane oggi l’unico torneo a pretendere il bianco per tutti). L’Italia primo-novecentesca – a partire dai 13 ori di Anversa 1920, superati con 14 solo a Los Angeles 1984 – sta già conquistando una buona nomea nell’abbinamento tra colore indossato e mitologia del campione e delle vittorie, preceduta altresì da due sport, uno individuale l’altro collettivo, che da inizio secolo fino a oggi possono vantare un seguito proletario: il ciclismo e il calcio.

Con la nazionale ciclisti Gastone Nencini, il ‘leone del Mugello’, vince il Tour de France 1960: e sono formidabili i resoconti dei giornalisti quando parlano di un puntino azzurro che, pedalando come un forsennato, stacca tutti e lascia i francesi che ‘s’incazzano’ come ai tempi di Bartali e Coppi (stando alla canzone di Paolo Conte). Nel football all’inglese, dopo l’esordio internazionale – 6-2 alla Francia il 15 maggio 1910 – in tenuta bianca forse in onore della Pro Vercelli (allora team in grado di offrire i 10/11 alla formazione in campo) l’azzurro nazionale viene sempre adoperato, facendo persino coincidere, come del resto succede ad altre compagini, il nome della squadra a quello in tinta unita. E gli «azzurri» sono i protagonisti indiscussi dell’unica Olimpiade aurea – Berlino 1936, finale 2-1 all’Austria il 15 agosto – proprio a cavallo tra le due vittorie mondiali in Italia 1934 e in Francia 1938, dove peraltro si verifica l’increscioso episodio di giocare contro i padroni di casa in completo interamente nero: è proposito un ossequio alle camicie delle squadracce mussoliniane, indossate ancora dalle tante gerarchie fasciste. È un nero che, durante uno dei tanti governi con l’Alleanza Nazionale negli anni Duemila, qualche parlamentare tenterà di proporre, in amichevole, quale casacca storica commemorativa, ultimi strali di un subdolo revisionismo pacchiano, che purtroppo anche oggi tenta emergere persino sotto le sembianze della sportività.

L’azzurro entra comunque in politica anche prima, già alla fine della seconda guerra mondiale, quando con il costituirsi della Repubblica italiana alcuni senatori azionisti, dopo aver giustamente eliminato lo stemma piemontese dal tricolore, propongono anche di sostituire negli sport l’azzurro – memore del regio passato – con un neutrale completino bianco: tuttavia da PCI, PSI e DC si levano voci contrarie e l’azzurro resta fino a oggi, ma con la significativa aggiunta dello scudetto tricolore su ogni divisa, sul petto, al centro o all’altezza del cuore. Va ricordato il proposito che lo scudetto pre-repubblicano è ancora quello rosso crociato monarchico, al quale nel ‘ventennio’ è affiancato un fascio littorio dorato. Oggi, a pochissimi giorni da Paris 2024 torniamo a chiederci se l’azzurro degli atleti viri maggiormente – in base alla sopraccitata Zur Farbenlehre – verso il blu, il celeste, il turchese o altro; ma al di là del tifo, riflettiamo anche sull’azzurro colore del cielo e del mare, evocatore di natura incontaminata che resta un segno forte, stando alle recenti teorie di psicologia, attraversando di volta in volta l’universalità, la creazione, la pacatezza, l’idealismo e persino la trascendenza