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Nicolas Philibert, l’arte di trovare la giusta distanzaC’è un battello sulla Senna, nel centro di Parigi, lungo il Quai de la Repée, sulla fiancata c’è scritto: Adamant, al di là della forma (disegnata da un gruppo di architetti) si potrebbe dire che ha qualcosa che ricorda l’Atalante del film di Vigo. L’Adamant è un centro di accoglienza diurno per persone con disturbi mentali, ospedalizzati e non, che fa riferimento al Polo psichiatrico e psicologico di Paris Central che include anche due Centri Medici Psicologic (CMP)i, un team mobile, due unità connesse all’Esquirol, l’ospedale psichiatrico che un tempo era lo Chareton, il tutto connesso al complesso ospedaliero del Saint-Maurice. È dunque sull’Adamant che Nicolas Philibert, il regista di film quali Ritorno in Normandia (2007), La Maison de la Radio (2013), A Chaque Instant (2018), è salito per filmare: ma cosa? E soprattutto come? Nella frase in apertura del film Philibert parla dei vuoti nella visione, di quegli interstizi che è proprio dove posa il suo sguardo e compone la sua ricerca., con una scrittura netta nel modo di porsi, sempre in punta di piedi, attento a lasciar respirare i soggetti e le storie davanti al suo obbiettivo. Sur l’Adamant racconta dunque un luogo particolare per i metodi che utilizza con le persone che lo frequentano: i pazienti sono semplicemente «persone», non si propone loro cioè solo un «piano di cure» ma con esso c’è un fare quotidiano che permette a ciascuno di trovare uno spazio, di esprimersi, di donare e, forse, curare a sua volta. È uno scambio continuo e costante che attraversa i numerosi laboratori di musica, disegno, la gestione del piccolo bar, la preparazione delle marmellate, il cineclub, senza separazioni tra gli operatori e i pazienti, senza distintivi che segnalano i ruoli né divise. Un battello che accoglie persone con disturbi mentali, il rapporto orizzontale tra operatori e pazienti

TRA CHI FREQUENTA l’Adamant qualcuno si «apre» di più al regista, confida frammenti della sua storia: una donna che ha perso suo figlio quando questi era piccolissimo, lei stava male, le autorità hanno pensato che il piccolo potesse crescere meglio in un’altra famiglia, dove è tuttora che è adolescente. Un uomo, che somiglia ai personaggi dei film di Garrel, discute di poesia, di cinema,di musica; è coltissimo e pieno di intuizioni, in ogni storia di un film o di una canzone vede sé stesso, sia un’opera di Wenders o un brano di Jim Morrison, parlano sempre di lui, in una strana sovra-identificazione nell’arte – che poi è anche questo, trovare qualcosa che riguarda l’universalità quindi ognuno di noi. Ma, ancora una volta, non sono le esperienze dei singoli ospiti a definire il film, a partire da qui è l’idea di cura che ancora una volta Philibert mette al centro della sua riflessione – come già era in De chaque instant – in questo ritorno alla realtà ospedaliera psichiatrica che aveva affrontato anche in La Moindre des choses, (1996) girato all’interno della realtà ospedaliera di Le Borde. Ma come lui stesso dice, nel materiale stampa del film: «Non c’è una sola forma di psichiatria, è un campo plurale, multiplo che ha un continuo bisogno di revisione». E questa molteplicità, si esprime qui in modo ricco, con compiutezza nell’attenzione, l’ascolto dell’altro, lo scambio che va oltre i ruoli e che rimette al centro l’umano, la passione, il desiderio in ogni gesto di cura. In questo microcosmo gli sguardi non sono mai offensivi o distanti ma al contrario includono e la malattia non diventa un discrimine nella partecipazione. È la singolarità di ciascuno e di ciascuna che viene rispettata in questo approccio che si oppone a cancellare o a uniformare le fragilità di ciascuno. Un’apertura con cui Philibert dialoga nella sua forma cinema, mai univoca ma con la stessa cura verso i suoi soggetti per trovare loro il giusto spazio e la distanza nel quale possano esistere senza sovra imposizioni. In un viaggio di scoperta che si fa insieme, il regista, i protagonisti, lo spettatore, cercando al suo interno ciascuno un posto e una visione per sé.Non c’è una sola forma di psichiatria, è un campo difficile, plurale, multiplo che ha costantemente bisogno di un continuo bisogno di revisione.

IL FILM di Nicolas Philibert è il penultimo titolo del concorso berlinese che si chiude oggi con Till the End of the Night del regista tedesco Christoph Hochhausler, in attesa sabato dell’Orso d’oro. Difficile fare una previsione ma un titolo che potrebbe avere buone possibilità – anche perché ha la cifra per accordare una giuria, e forse anche questa «diretta» da Kirsten Stewart – è Past lives di Celine Song – ne ha parlato dal Sundance, su queste pagine Giulia D’Agnolo Vallan – ispirato al vissuto dell’autrice, che come la protagonista, Nora, è emigrata in America dalla Corea del sud, e un giorno si è trovata a passare una sera al bar col marito – quello di Nora è interpretato da John Magaro – e il grande amore dell’infanzia.
I due ormai non più bambini si ritrovano per caso sui social network, iniziano a scriversi, ma lei tronca: quella strana relazione la riporta se non con il fisico con la mente da dove è andata via, allontanandola dai suoi studi e dalla sua vita al presente. Dodici anni dopo si sentono di nuovo, lui è a New York, lei si è sposata da qualche tempo e col marito è felice.

C’È UN SENTIMENTO di sliding doors che attraversa la storia, e che qui si declina in una ispirazione buddista delle molte vite, passate e presenti e future, che si incontrano anche in persone diverse. Più che però di un amore rimpianto, il legame tra Nora e l’amico di infanzia porta in sé quella malinconia per l’infanzia, la vita che passa con le sue scelte, ciò che può essere e ciò che è, le infinite possibilità di quando si è bambini e le consapevolezze dell’età adulta.
Insieme allo spaesamento che si porta chi vive in un paese diverso – «Il tuo coreano è diventato strano» dice lui a Nora – e trova anche se nel suo caso, che è una scrittrice e quindi l’inglese è la lingua del suo pensiero, qualche profonda e segreta connessione con ciò che è nel passato, con un tempo lontano che rimane da qualche parte nel cuore.