In questo momento vorrei non essere un’elettrice o un elettore di sinistra. Chi appartiene a questa «specie» tribolata – e anche temeraria – si trova nella scomoda e frustrante condizione di intravedere la propria estinzione politica. Qualunque altra categoria di elettori, al confronto, ha davanti a sé una prospettiva migliore.

Chi vota 5Stelle, con tutti gli alti e i bassi delle sindache star, con gli sbalzi d’umore del vecchio comico/politico, con le insondabili nuvole telematiche del giovane imprenditore Casaleggio, sa comunque di combattere, se non per governare, sicuramente per tentare di vincere la sfida delle urne.

Chi vota a destra certo non può contare sul Cavaliere di una volta, ma può navigare nel vasto mare del berlusconismo, in compagnia di qualche ex camicia nera ai comizi, e di una forte ventata di xenofobia. Magari Forza Italia si muove su altri piani ma da quelle parti di pelo sullo stomaco ce n’è in abbondanza. Anche perché se «fanno i bravi» e si mettono insieme in una lista, potrebbero perfino battere tutti gli altri. D’altra parte l’asse politico e culturale del paese  si è spostato a destra e il vento tira su posizioni conservatrici e reazionarie. (E male che vada, Berlusconi il suo 15 per cento potrebbe sempre portarlo in dote ad un eventuale governo neocentrista del giovane Renzi).

E con il segretario del Pd arriviamo all’epicentro del terremoto provocato dallo spostamento a destra di quella che ancora nel 2013 era considerata l’area di centrosinistra, quando Bersani e Vendola, con l’alleanza Italia-Bene comune, avevano costruito un programma e una prospettiva che le alte sfere in Italia e in Europa non vedevano di buon occhio. E non per caso le chiavi del governo finirono nelle mani prima di Enrico Letta e poi, di male in peggio, in quelle di Matteo Renzi.

Lui oggi è il frontman di un gruppo di potere vasto e articolato, un leader politico che non ha certo nascosto il suo progetto di rottamazione, nel Palazzo e nella società, nei confronti di una «vecchia» politica e di una «vecchia» classe dirigente. Spazzando via però, al tempo stesso, le possibili forme di vita a sinistra. La sua marcia per de-sinistrizzare il partito è stata una passeggiata: ha solo sfondato porte aperte. Chi ha storia, memoria, progetti di sinistra oggi gira al largo da lui e dai suoi sodali.

Il nostro giornale, che aveva visto avanzare il renzismo nel plauso generale, compresi i Cacciari, i Ferrara («lasciamolo lavorare»), evidenziando i rischi dell’uomo solo al comando, veniva considerato «sinistra d’antan». Che, più o meno, è quello che ora Giuliano Pisapia imputa a quanti lo invitano a considerare indigeribile un’alleanza con Renzi, per concentrarsi invece nella paziente costruzione di un partito, di una forza, di un campo di sinistra: un nuovo «luogo» di riferimento, in grado di mobilitare una stagione di lotte sociali e generazionali che in molti paesi europei danno oggi forza e speranza, credibilità e consenso alle nuove e vecchie formazioni di sinistra.

Ma anziché convergere e lavorare per unire, i vari leader  di quest’area, in parte espulsi con la rottamazione (il gruppo Bersani), in parte tormentati da continue micro scissioni (come per la vecchia Sel di Vendola), in parte autopromossi (come Pisapia), hanno occupato il tempo soprattutto per presidiare la propria area politica. Intendiamoci, la discussione, anche aspra, non è poco importante. Anzi, è necessaria, purché non resti incardinata, ancora una volta sui vecchi, eterni binari delle reciproche accuse di collateralismo e minoritariasmo. Perché si tratta di alibi sempre più fasulli.

Se in Italia, in Europa, nel mondo le nostre società sono abbrutite dalle diseguaglianze e se sul lavoro e i suoi diritti, sull’immigrazione e la guerra, sui diritti civili e sulla libertà di informazione c’è larga parte del paese d’accordo con le idee della sinistra, allora queste idee bisogna portarle agli elettori e offrire su questi temi niente di meno di una battaglia decisa, di un conflitto sociale largo e credibile, facendoli vivere nel dibattito culturale, nell’azione parlamentare.

Non a caso avevamo proposto un’assemblea costituente per organizzare le forze e il programma, e alla fine, seppur faticosamente,  l’idea può ancora guadagnare terreno. Quel che però sembra mancare è la consapevolezza della durezza dello scontro prossimo futuro. Vivremo una campagna elettorale durissima, lunghissima, e molto difficile per chi vuole soprattutto ragionare. Dice bene il presidente della Repubblica quando invita a mettere da parte gli slogan, la rissosità, prevedendo il peggio.

Le prossime elezioni rappresentano l’ultima fermata di un treno che la sinistra non può permettersi di perdere, se non vuole essere irrilevante per molti anni. Leggere, adesso, che a sinistra del Pd potranno esservi due o più liste, fa cadere le braccia e avvilisce chi da sempre ritiene che solo attraverso l’unità si può costruire qualcosa di nuovo e di diverso.

I leader – o leaderini – a sinistra del Pd devono sapere che se mettono i loro interessi, politici e personali, davanti ad ogni cosa, porteranno il treno a deragliare, distruggendo idee, voglia di cambiamento. Se si comporteranno in modo autodistruttivo nessuno, a sinistra, potrà più perdonarli.