«In genere, nessuno pensa al carbone come a un re. E certamente nessuno pensa che il carbone abbia una prospettiva. Ma io sono cresciuta nell’insolita situazione in cui il carbone è stato parte della mia vita, sin dalla nascita. Come tutte le altre manifestazioni della natura, conosco il carbone da sempre». Così, nelle note di produzione del film, scrive Elaine McMillion Sheldon, figlia, nipote e pronipote di minatori del West Virginia e regista di King Coal, presentato nella sezione Next del festival.

COME Kim’s Video, King Coal non rientra nell’ortodossia del documentario secondo Sundance, il che è un peccato, perché sarebbe giusto che variazioni di linguaggio come queste fossero integrate nel concorso, invece di essere marginalizzate in un piccolo programma di nuove tendenze. Parte saggio personale, parte poesia, parte inchiesta anomala, King Coal è ambientato in Appalachia, il cuore minerario degli States, e una zona montagnosa che – tra gli altri – abbraccia parti del West Virginia, della Pennsylvania, del Kentucky, North Carolina e Tennessee, gli stati un cui è girato il film.

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Sundance, relazioni pericolose e fantasie femminili color noirAncorato a una narrazione in prima persona della regista, il film di Sheldon si apre in un equilibrio, immediatamente immersivo, tra il viaggio e il sogno. L’ubiquità del protagonista del film, nel paesaggio che si rivela ai nostri occhi è subito resa chiara dal colore – il nero profondo che stria il verde squillante delle montagne e le rive dei fiumi. Binari ferroviari abbandonati, tenebrosi tunnel in disuso, spacci minerari cadenti e sbarrati…il viaggio prosegue ma, a quell’impressione di morte, della fine di un mondo, si sovrappongono presto immagini della vita di tutti i giorni – fiere, foto, danze, funerali, lezioni a scuola – di quello stesso mondo che davamo per estinto e che sembra stranamente vivo e vegeto. Come in una dimensione parallela, fuori dal tempo. Perché, dice la voce di Sheldon a un certo punto, «il carbone non è più re. Ma non è morto. Rimane tra noi, come un fantasma». E l’intelligenza politica del film è proprio lì: saper mostrare come un’intera cultura sopravviva al declino di un’industria. Il carbone in Appalachia non è solamente un fatto economico, ci dice King Coal, un lavoro che si può sostituire con un altro. È un’identità profonda, arcaica, una presenza sovrumana (evocata tenebrosamente dall’uso del sonoro) – quindi cosa molto più difficile a cui rinunciare. Poco importa l’incalzare dei tempi.
Sheldon racconta questa verità, che sfugge alla narrativa codificata delle news e alla logica dell’evoluzione tecnologico/economica attraverso immagini bellissime, di una natura ancora imponente, di luoghi e di comunità, intermezzandole con brevi incontri e aneddoti personali. Lo fa in un film che è quasi miracolosamente scevro di elegia (anche se la scelta di usare due bambine come filo conduttore – il futuro? – risulta a tratti leziosa), rispettoso del suo oggetto senza, allo stesso tempo, essere ripiegato sul passato. Lo stesso rispetto per la grana fine di una cultura, per la dimensione regionale di una storia, o di un problema politico è presente in altri documentari formalmente più tradizionali visti al festival, ed è un po’ una caratteristica della non fiction made in Sundance.«The Stroll» di Kristen Lovell e Zackary Drucker mette invece al centro le donne transgender costrette a prostituirsi sulla riva dell’Hudson, tra violenza dolore e humorTRA I MIGLIORI The Stroll, di Kristen Lovell e Zackary Drucker, un viaggio anche quello, ma in una cultura che non potrebbe essere più antitetica di quella di King Coal. «Il passeggio» del titolo è infatti il nome con cui ci si riferiva al vecchio quartiere del mercato della carne di Manhattan, intorno alla quattordicesima strada sulla riva dell’Hudson, e alle donne transgender costrette a mantenersi prostituendosi tra le sue strade acciottolate, tentando la sorte a bordo di macchine di sconosciuti o all’interno di camion frigoriferi pieni di quarti di bue. Ricco di girato e di fotografie dell’epoca, The Stroll è raccontato dalle sue protagoniste, le poche sopravvissute alla droga, alla violenza, alla gentrificazione, alle botte della polizia, all’ostracismo del movimento omosessuale ansioso di normalizzazione dopo l’Aids e alla durezza della vita homeless. Parecchie di loro oggi sono attiviste nel movimento per i diritti trans. Il tono delle loro storie nel film è limpido, orgoglioso, segnato dal dolore e dalla perdita. Ma rimane miracolosamente irriverente dopo tutto questo tempo. Persino venato di humor.