È un grigio, buio, freddo, inverno del Massachusetts anni Sessanta. Eileen (Thomasin McKenzie) lavora come segretaria nel carcere minorile di un sobborgo operaio di Boston mantenendo il padre, ex capo della polizia locale, alcolizzato, incattivito e forse anche un po’ fuori di testa. «Nella vita ci sono persone che fanno una differenza, e altre che riempiono solo gli spazi vuoti. Tu sei una di quelle» è un esempio delle pillole d’affetto che il genitore (Shea Whigham) riserva alla figlia nei brevi frammenti di conversazione che i due condividono, ogni giorno, nella loro casetta gialla, un po’ sporca e cadente, stregata dai fantasmi della figlia modello che si è fatta una vita altrove e dagli abiti raffinati della madre morta. Questa la premessa di Eileen, l’adattamento del folgorante romanzo d’esordio della scrittrice bostoniana di origine croato/iraniana Ottessa Moshfegh, uscito nel 2015.

«Cat Person»

ALLA REGIA del film – il migliore visto finora, presentato sabato sera nella sezione Premieres del festival – è l’inglese William Oldroyd. Come la scrittura di Moshfegh (che ne firma la sceneggiatura insieme a Luke Goebel), il secondo lavoro del regista di Lady Macbeth è elegante, sicuro di sé, stringatissimo, ardito nelle sue ellissi e misterioso. L’impatto è quello compatto, efficace, pericoloso, di un noir hollywoodiano anni Quaranta (anche la durata, poco più di novanta minuti ne evoca il formato), quelli sbocciati dal melodramma femminile che prese piede durante la produzione bellica.
Come in quei noir, dietro all’apparenza mite, timida e un po’ topesca di Eileen si celano fantasmi e desideri molto più complicati. Li intravediamo, in squarci improvvisi che erompono dalla sua immaginazione (Oldroy li filma come se fosse parte del tessuto realistico del film, creando un senso di spiazzamento quasi fisico). Ma è l’arrivo alla prigione di una nuova psicologa che fa scattare l’inizio della metamorfosi della protagonista. La «dottoressa signora Rebecca St. John» – come la presenta con paternalismo il direttore, che «dimentica» la sua laurea ad Harvard attribuendola invece a un college femminile di qualità inferiore – è un’apparizione in tacchi altissimi, tailleur di lana attillati e morbidi riccioli color platino. Così implausibile in quel posto che potrebbe essere una visione nella fantasia di Eileen, con cui condivide l’interesse per un ragazzo biondo, incarcerato per parricidio. Languidamente appesa a un’immancabile Lucky Strike («fumare è una cattiva abitudine, per quello mi piace», afferma – molto Jessica Rabbitt), Rebecca (Anne Hathaway) manifesta il desiderio di far amicizia con la giovane segretaria. Risucchiata nella sua profumata nuvola di esotismo, Eileen comincia a fumare, truccarsi e a usare gli abiti ricercati della mamma. Come hanno notato altri, la dinamica tra le due donne ricorda un po’ Carol , ma qui – rispetto all’adattamento di Todd Haynes del romanzo di Patricia Highsmith – la componente omoerotica è secondaria. E forse anche l’amore c’entra poco o niente. Rebecca rappresenta per Eileen molto di più dell’occasione di liberare la sua libido. Hitchcock sembra infatti una delle influenze dominanti, sia sulla pagina che sullo schermo, nel tratteggio dei due personaggi femminili e del loro rapporto fantasmatico di quasi-transfer – L’altro uomo, Vertigo e Rebecca sono solo i primi titoli che vengono in mente. Il colpo di scena, insieme a una terza donna, interpretata con grande efficacia da Marin Ireland, arriva all’ultimo momento. Ma non si può spiegare quello che succede senza rovinare tutto.

«Past Lives»

IL TEMA delle relazioni pericolose, come quella tra Eileen e Rebecca, torna in parecchi film visti finora qui al festival. Anche se in modo meno soddisfacente. Per esempio, in Fair Play di Chloe Domont (in Concorso) dove Phoebe Dynevor e Alden Ehrenreich si stanno per sposare all’insaputa della competitiva banca d’investimento per cui lavorano entrambi. Le cose si complicano, tra i due e in ufficio, quando lei viene promossa invece di lui. La premessa è interessante per un po’, sullo sfondo del solito rancido darwiniano mondo di Wall Street. Ma il film di Domont (nato da esperienze di coppia personali, ha detto la regista) affligge il tutto con un finale moralista che ha fatto applaudire di soddisfazione il pubblico millennial in sala. Meno schematico e banalmente risolto Cat Person, di Susanna Fogel (co-sceneggiatrice di Booksmart), presentato tra le Premieres e tratto da un famoso racconto breve di Kristen Roupenian, pubblicato sul settimanale «New Yorker» (coproduttore del film). Un’altra radiografia delle insidie del rapporto di coppia, Cat Person è la storia di una studentessa ventenne, cassiera in un cinema, e del trentenne, timido e un po’ goffo, di cui non sa nulla ma con cui inizia una storia, per poi pentirsi e cercare di uscirne.
Nella stessa vena di A Promising Young Woman, tre anni fa, Fair Play e Cat Person (accolti con entusiasmo, sono considerati picchi di questa edizione) confermano l’esistenza di un filone di rilettura Sundance del thriller erotico anni Novanta, alla Adrian Lyne e Paul Verhoeven. Purtroppo, senza la perversione e la curiosità di quei maestri del genere. La minaccia (per il rapporto di coppia) arriva invece dal passato in Past Lives, il bel film della regista coreana Celine Song, una magica e potente meditazione sull’amore, le sincronie e non sincronie del tempo, delle ambizioni di vita e della geografia. Uno dei pochi che lasciano veramente il segno, nel festival di quest’anno, il film di Song, che batte bandiera canadese e qui è presentato nella sezione Premieres, è appena stato annunciato in Concorso alla Berlinale.