Potrebbe essere utile al capitale umano del Paese, o quanto meno a quello della sua classe dirigente, se il presidente del Consiglio nell’analizzare le proposte di politica economica portate all’attenzione del dibattito pubblico, ricordasse i ragionamenti dei grandi economisti. Circa l’introduzione di un’imposta di successione esiste, ad esempio, una curiosa convergenza di idee fra due economisti generalmente critici l’uno verso l’altro: Luigi Einaudi e John Maynard Keynes.

EINAUDI RITIENE legittima e opportuna l’imposta di successione laddove «il provento di essa non sia consumato, ma prenda la forma di capitali pubblici», sia cioè investito dallo Stato. E sottolinea anche che l’equità sociale può essere ottenuta grazie ad imposte di successione ben costruite: «In una società sana, duratura, i giovani debbono potere partire da situazioni non troppo disuguali. … In secondo luogo, la imposta successoria deve essere congegnata in modo che gli eredi di colui che formò una fortuna, piccola o grande, con l’opera sua e con il suo patrimonio, mentre sono costretti a trasferirne allo stato una porzione sempre più grande, sino al tutto, ad ogni successivo trapasso a causa di morte, siano contemporaneamente indotti, se vogliono conservare il podere, la casa, l’industria avita, a ricostituire col lavoro e col risparmio la quota che essi debbono consegnare allo stato».

Il ragionamento che Keynes dedica alle imposte di successione viene presentato al termine della sua «Teoria Generale» e parte esattamente dalla messa in discussione del risparmio privato come motore della crescita economica: poiché, fino al punto nel quale si afferma un’occupazione piena, l’aumento del capitale non dipende affatto da una bassa propensione a consumare, ma ne è invece ostacolato, e poiché il risparmio da parte di istituti e mediante fondi di ammortamento sembrerebbe generalmente maggiore di quello necessario, allora occorrerà mettere in campo misure per la redistribuzione dei redditi in modo da accrescere presumibilmente la propensione a consumare che possono anche favorire l’aumento del capitale.

FRA QUESTE GIOCA un ruolo importante l’imposta di successione: «La confusione esistente in materia nella mente del pubblico è bene illustrata dall’opinione assai comune che le imposte sulle successioni provochino una riduzione della ricchezza capitale del paese. Se si suppone che lo Stato destini il gettito di queste imposte alle sue uscite ordinarie, in modo da ridurre o evitare corrispondentemente le imposte sui redditi e sul consumo, è vero, naturalmente, che una politica fiscale di alte imposte di successione ha l’effetto di accrescere la propensione a consumare della collettività.

Ma in quanto un aumento della propensione abituale a consumare servirà in generale (ossia salvo che in condizioni di occupazione piena) a elevare nello stesso tempo l’incentivo a investire, la deduzione che si trae comunemente è esattamente l’opposto della verità. Per mio conto, ritengo che vi siano giustificazioni sociali e psicologiche per rilevanti disuguaglianze dei redditi e delle ricchezze, ma non per disparità tanto grandi quanto quelle oggi esistenti».

È CURIOSO CHE a partire da due analisi antitetiche circa gli effetti del risparmio sul sistema economico, tanto Einaudi quanto Keynes suggeriscano di introdurre delle imposte di successione legandole al contempo sia al perseguimento dell’equità nella distribuzione dei redditi che alla necessita di sostenere i capitali pubblici.

Dinanzi alla timida, e tutto sommato mal argomentata, proposta del nuovo segretario del Pd, Mario Draghi ha deciso invece di soffocare ogni discussione riferendosi al presunto senso comune dell’elettore mediano (quell’elettore che ha il 50% degli elettori alla sua destra e il 50% alla sua sinistra)… Ma ci sarà da fidarsi di qualcuno che pare un’Araba fenice? «Che vi sia ciascun lo dice, dove sia nessun lo sa».