L’idea Sepideh Farsi l’aveva in mente già da tempo ma per lei, che non può tornare in Iran, realizzare un film sulla guerra tra l’Iran e l’Iraq altrove era impensabile. Spiega: «Volevo affrontare un momento storico che ha segnato la nostra vita, specie di chi come me era molto giovane». Poi è arrivata la proposta di realizzare un’animazione, e da lì è nato La Sirene, che presentato alla Berlinale, in apertura di Panorama, ritorna a quegli anni di un conflitto molto violento con una storia che è al tempo stesso quasi un romanzo di formazione. Siamo nel 1980 a Abadan, uno dei più grandi porti dell’Iran, Omid un ragazzino di quattordici anni sta giocando a pallone quando un missile iracheno cade vicino le raffinerie. La guerra è iniziata e se il fratello maggiore prende le armi e va al fronte, lui troppo giovane per combattere rimane nella città assediata, cercando di sopravvivere. «Lavorare con il disegno mi ha permesso di restituire anche l’idea di cosa si era perso dopo la guerra, alcuni colori sono scomparsi e tutto è diventato molto più polveroso».
Ci incontriamo dopo la proiezione, tra una intervista e l’altra; Sepideh Farsi, è nata a Tehran, filmmaker sgradita al regime – con i suoi film come Tehran Wihout Permission e Dreams of Dust – e attivista, è stata arrestata quando aveva sedici anni, e vive ora a Parigi dove è andata per la prima volta per i suoi studi nel 1984. Tornata in Iran nel 1994, lo ha lasciato di nuovo nel 2009 dopo l’Onda verde.

Una scena da “Le Sirene”

L’animazione le ha permesso una maggiore distanza per riflettere su quegli eventi?

Ci sono aspetti molto molto realistici nel film che sono frutto di ricerche molto accurate e precise, simili a quelle che ho fatto per dei film live action. E ci sono aspetti più fantastici, a volte quasi magici. La distanza narrativa che offre l’animazione è stata preziosa per rielaborare questo soggetto all’interno di più interpretazioni. Quando è iniziato il conflitto sia io che Javad Djavahery, autore con me del soggetto e mio compagno, eravamo adolescenti: all’improvviso la vita è cambiata. È molto spiazzante, se non completamente assurdo, svegliarsi e trovare da un giorno all’altro che il tuo Paese è stato invaso. Eppure impari a conviverci, a condurre un’esistenza ’normale’, stai a casa, cresci con questa realtà intorno a te. Quel periodo è stato rimosso, invece è un passaggio fondamentale non solo per l’Iran ma per tutto il Medio oriente. Volevo mostrarlo dalla prospettiva di chi non vuole combattere e si trova costretto alla guerra.

Da iraniana che vive fuori dall’Iran cosa pensa di quanto sta accadendo in questi mesi, di questa rivoluzione in corso?

Le persone in Iran resistono da decenni, sono abituate a resistere e in un certo senso è come se questo movimento fosse sempre stato lì. Abbiamo dovuto imparare a resistere per avere diritto ai libri, ai film, alle canzoni, l’Iran è un vulcano che ora sta esplodendo. Le persone sono state troppo a lungo vittime del regime senza che nulla accadesse, senza che ci fossero cambiamenti.

In molti dicono però che rispetto a altri momenti di protesta stavolta è diverso, a cominciare dal fatto che in piazza non c’è solo la borghesia urbana.

C’è una maggiore relazione tra le diverse parti della società iraniana, e questo è fondamentale; come ci sono anche più legami con la diaspora, è una rivoluzione trasversale. Purtroppo ci sono anche molti nemici, negli anni il regime ha fatto il lavaggio del cervello alle persone utilizzando il ricatto della religione.