Gli esiti del cosiddetto “bando PINQUA” (“Programma innovativo nazionale per la qualità dell’abitare” dell’ex Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti), agganciati anche all’utilizzazione dei fondi del PNRR, danno l’occasione per tornare a discutere delle politiche pubbliche sul tema della “rigenerazione urbana”.

Il concetto di “rigenerazione urbana”, come noto, è ambiguo e usato generalmente in maniera distorta. Nella maggior parte dei casi è un modo per rendere più digeribili, se non apprezzabili, in poche parole, per mascherare operazioni che, seppur non propriamente speculative, sono essenzialmente di valorizzazione immobiliare.

Lo vediamo negli esempi concreti, ma anche nella legislazione regionale che è stata ampiamente prodotta sul tema della “rigenerazione urbana”, ma che nella maggior parte dei casi si caratterizza per essere una derivazione del “piano-casa” di origine berlusconiana. Addirittura, alcune Regioni, segnatamente il Veneto, introducono i “crediti edilizi” ed il relativo “mercato”, volumetrie che si possono spostare e collocare altrove, spesso in deroga ai piani regolatori, con buona pace di un’idea alta di rigenerazione urbana. D’altronde, non sono poche le voci che si sono già levate come grido di allarme, anche nei confronti di Regioni tradizionalmente ritenute virtuose, come l’Emilia-Romagna.

Per avere un senso più qualificante della tradizionale “riqualificazione urbana”, la rigenerazione urbana si dovrebbe caratterizzare per un più complessivo progetto di rilancio dei territori e dei contesti urbani, partendo dalle opportunità offerte soprattutto dal patrimonio edilizio dismesso e/o inutilizzato e dalle necessità della riqualificazione anche fisica di alcuni quartieri e dei relativi spazi pubblici, ma avendo come orizzonte fondamentale la promozione sociale di quei quartieri nel loro complesso, sviluppando le iniziative culturali e sociali, le economie locali, la riappropriazione degli spazi, il coinvolgimento degli abitanti, l’innovazione sociale, l’attenzione ai cicli naturali, l’utilizzazione di nature based solutions, ecc.

In poche parole, bisognerebbe assumere un approccio integrato mirato allo sviluppo locale integrale dei quartieri e, in particolare, delle periferie. Tale approccio integrato non può essere sviluppato se non attraverso l’interdisciplinarità, il lavoro sul campo, le forme collaborative di riconoscimento e valorizzazione delle organizzazioni di abitanti e dei soggetti sociali che già lavorano sui territori, ecc. ecc.

Dando per scontata la necessità di superare la logica della semplice valorizzazione immobiliare (che scontata non è, data la sua netta prevalenza), è ben chiaro, infatti, che la rigenerazione urbana non può essere limitata ad interventi sulle componenti fisiche (pur sempre importanti, ovviamente), sia perché questo non è sufficiente, sia perché questo muore rapidamente nel tempo.

Non è sufficiente, e quindi è inefficace, perché i quartieri – soprattutto quelli in difficoltà, come quelli di edilizia residenziale pubblica – e i relativi abitanti hanno ben altri problemi (la povertà, il lavoro, le disuguaglianze, la mancanza di servizi, ecc.), che vanno oltre quelli solo legati allo spazio fisico e che richiedono progetti duraturi in quei campi: sostegno alle economie locali, lotta alla disoccupazione, sviluppo dei servizi, ecc.

Eventualmente gli spazi fisici devono sostenere quei progetti e la loro riqualificazione deve essere pensata con quegli obiettivi e funzionale a quei progetti (da cui quindi non può essere scorporata). Inoltre, molto spesso nei quartieri sono già attive realtà sociali locali impegnate in iniziative sociali e culturali volte ad affrontare i problemi esistenti. Quindi è importante sostenerle e valorizzarle: i progetti di riqualificazione fisica dovrebbero piuttosto supportare queste iniziative. Inoltre, questa rigenerazione urbana solo “fisica/edilizia” muore rapidamente nel tempo perché gli interventi edilizi ed urbanistici

Si tratta di questioni ben note, non solo alla ricerca scientifica (che le tratta da anni), ma ormai anche al dibattito pubblico sulle politiche dell’abitare, agli operatori più sensibili e persino alle stesse istituzioni. Ma rimangono ancora inattuate: una rigenerazione senza abitanti.

Ne è un tipico esempio il bando PINQUA, appunto, che aveva creato molte aspettative, ma che le lascia deluse.

Il bando, in maniera finalmente aperta e innovativa, intende valorizzare i progetti che assumono un approccio integrato, che integrano gli aspetti sociali e culturali della rigenerazione urbana, che sviluppano processi partecipativi, che valorizzano le iniziative locali e l’autocostruzione, peraltro dando un punteggio positivo a questi criteri di valutazione.

Tra l’altro favorisce anche il recupero di alloggi per l’edilizia pubblica. Peccato che non finanzia neanche qualcuna di queste attività. Di fatto, ancora una volta, vengono finanziati solo gli interventi fisici, con buona pace della “qualità dell’abitare”.

Accanto ai fondi propri del bando, si sono aggiunti ora – alla pubblicazione degli esiti e della graduatoria – quelli del PNRR che saranno disponibili nel corso degli anni, un impegno che rappresenta un passaggio importante e che rinnova le aspettative, pur in quest’ottica così limitata.

Ho avuto modo di partecipare alla presentazione agli abitanti del quartiere di Tor Bella Monaca, noto quartiere di edilizia residenziale pubblica romano, del progetto sugli edifici di via dell’Archeologia (il famigerato R5) che il Comune di Roma intendeva presentare al bando PINQUA, progetto peraltro molto ben fatto, elaborato da un gruppo di lavoro della Sapienza Università di Roma (coordinato dalla prof.ssa Eliana Cangelli).

È interessante notare che gli abitanti, forti di una “conoscenza esperta” e più saggi della pubblica amministrazione, piuttosto che essere interessati agli aspetti fisici e tecnici della riqualificazione edilizia (di cui capivano ben poco), erano terribilmente preoccupati delle attività che si sarebbero andate a svolgere nei nuovi spazi costruiti, della sistemazione degli alloggi, del controllo degli spazi pubblici, del sostegno alle iniziative locali, dei soggetti che sarebbero stati assegnatari di quegli spazi e quindi della loro gestione.

Il punto di vista degli abitanti è giustamente quello della vita quotidiana e del funzionamento ordinario delle cose. Vedono le cose unitariamente, nel reale, e non divise secondo le competenze e la settorialità della pubblica amministrazione.

Conoscendo l’incapacità gestionale della pubblica amministrazione e l’incombere della criminalità organizzata, alla quale si rischia di preparare un bel regalo, gli abitanti sono stati fortemente critici, per non dire che si sono infuriati ed allarmati.

Non tanto per quello che c’era nel progetto, ma per quello che non c’era. Le destinazioni degli spazi progettati e le attività connesse, infatti, pur avendo una funzione in prospettiva interessante e importante, rimangono indefinite e il bando PINQUA, come si è detto, non li finanzia.

Alle forti e aggressive rimostranze degli abitanti, l’assessore comunale (a cui va riconosciuto di essere stato presente e aver partecipato), non potendo fare molto nell’ambito di questo bando, non ha potuto far altro che lanciare alcune vaghe promesse sul tentativo di cercare fondi da altri serbatoi e l’impegno di tornare a discuterne insieme nel processo di approfondimento del progetto (qualora fosse stato approvato) per definire meglio le attività da svolgere in quegli spazi.

Il progetto è ora inserito in graduatoria e sarà finanziato, appunto, con i fondi del PNRR, i cui tempi sono attualmente indefiniti. All’incertezza temporale (che peraltro si deve supporre che sarà lunga: ad esempio, alcuni progetti ripescati dal vecchio “bando periferie” di epoca renziana sono stati finanziati dopo oltre cinque anni…), si aggiunge l’inadeguatezza del bando e l’insoddisfazione per quello che manca, e che si spera di poter integrare.

Un’ulteriore osservazione può essere aggiunta, che illustra – in maniera, a mio parere drammatica – la ricaduta di queste politiche sui territori e gli effetti sulla vita quotidiana. Andando via dall’incontro di discussione del progetto per il bando PINQUA, abbiamo continuato a discutere insieme agli abitanti.

La posizione prevalente, anche tra quelli che erano stati più critici e agguerriti, era di accettare comunque il progetto. È meglio avere un intervento di riqualificazione, per quanto inadeguato, e l’arrivo dei fondi connessi, che non averlo. Tale è il bisogno di interventi di riqualificazione e l’assenza di politiche pubbliche, che è meglio accettare qualsiasi cosa, anche interventi non fatti bene e che richiedono altro.

In contesti deprivati e in così grande difficoltà, oggetto di profonde disuguaglianze, si tratta della “naturalizzazione” dell’inadeguatezza delle politiche e dell’assenza del “pubblico”. E, allo stesso tempo, è la “trappola dell’accettabilità” (altrove definita acceptability trap); una situazione di “doppio vincolo”, come direbbe Gregory Bateson: in questo caso, una situazione di conflitto interiore che si riversa sul sociale e da cui non si esce comunque vincenti.

Alcuni progetti risultati vincitori del bando, ed in particolare alcuni tra quelli segnalati, sono sicuramente dei progetti eccellenti, che si spera vengano realizzati al più presto. Segnalo, in particolare, quelli relativi all’ex caserma di Porto Fluviale a Roma e al quartiere San Siro a Milano, realizzati da gruppi di progettisti molto sensibili, che lavorano in quei contesti da tempo, nonché esito di processi che hanno visto un profondo coinvolgimento degli abitanti. In generale, rimanendo nella “trappola dell’accettabilità” come gli abitanti di Tor Bella Monaca, speriamo che questi interventi siano realizzati al più presto. Ma sono le politiche pubbliche che sono inadeguate e insufficienti.

Analoghe osservazioni possono essere svolte nei confronti del PNRR, che non sviluppa (nonostante le dichiarazioni) una vera e propria politica dell’abitare. Limitando fortemente l’impegno sulla “rigenerazione urbana” intesa in maniera integrata, si concentra piuttosto sulla “rigenerazione” edilizia, investendo fortemente sul bonus 110% e quindi sull’efficientamento energetico, oltre che sul tema della messa in sicurezza degli edifici. Si intenderebbe veicolare, nelle migliori intenzioni, la “rigenerazione urbana” attraverso gli interventi di riqualificazione edilizia (che pure sono necessari, ovviamente).

Invece, servirebbe ben altro. Ben altri e più ampi processi bisognerebbe sviluppare (e alcuni quartieri si stanno autorganizzando in questa direzione, vista l’inadeguatezza delle politiche pubbliche). Siamo ben lontani non solo da una politica per la casa (si ricorda che non si finanzia l’edilizia pubblica in Italia da moltissimi anni, e che – dati recenti del Ministero degli Interni – gli sfratti sono stati 4500 nel 2020 nella sola Capitale), ma ancor più da una “politica dell’abitare” e dalle esigenze urgenti degli abitanti.