Le parole creano immaginari, e gli immaginari nutrono la realtà. Lo ricorda Domenico Starnone in un suo articolo apparso su «Internazionale»: l’immaginario che si portano dietro le parole “polizia”, “carabinieri”, “esercito”, è un immaginario legato sì alla sicurezza, alla difesa, ma anche alla paura, alla minaccia, a una forma di potere esercitata attraverso un’uniforme. Per questo qualche tempo fa, a Milano, mentre una donna importunava gli avventori di un bar urlando loro contro insulti e diffamazioni, la piccola folla minacciava: “O la smette, o chiamiamo la polizia”. È vero, come dice Starnone, che ad avere paura della divisa non sono i malviventi, ma soprattutto chi ben vive. E dirlo non è né un reato, né un’accusa o una diffamazione.

“Colle lettere si fanno le parole, colle parole tutto” scrive Shaffire nel libro Precious. Ed è proprio così. Dunque le parole possono anche fare paura, e le parole non sono mai autonome rispetto a uno storico, a un contesto, se è vero – come io credo – che le parole creano genealogia e che le verità (e a ruota le parole e le paure e le emozioni) variano al variare del contesto. E delle grammatiche. In una grammatica e in una realtà accompagnata da un lessico militare, come quello utilizzato sotto pandemia e dunque ancora ampiamente di moda (“guerra” e tutti i lemmi afferenti a quell’area semantica), la parola “divisa” e dunque la cosa possono fare paura se utilizzate fuori contesto, o fuori registro – spesso le due cose coincidono. E fanno paura soprattutto se, nel mio storico, ed è capitato più volte al sottoscritto e a persone che hanno denunciato fatti simili (rimando all’articolo di Ginevra Bompiani su «il manifesto» del 18.4.20), un poliziotto mi chiede di visionare la mia busta della spesa per accertarsi che io abbia motivo d’essere in coda al supermercato, durante lockdown. Exemplo gratia.

La risemantizzazione della divisa, come di ogni uniforme, luogo, persino momento, passa attraverso un cambio di rotta. Gesti che fanno comunità, che generano fiducia, alleanza e non paura. Per chi si sente attaccato nel personale quando si parla di divisa, ribadisco l’ovvio rifacendomi all’articolo di Alessandro Giammei uscito su «Domani»: “Il generale e la sua uniforme non sono la stessa persona”, declinazione dell’affermazione per me sempre valida “l’autore e la sua opera non sono la medesima cosa” o “armatura e cavaliere non coincidono”.

Dire che la divisa fa paura è una libera opinione; condannare quell’opinione e con l’opinione la persona che l’ha espressa è un atto, invece, di intimidazione e di gogna pubblica, compiuta proprio da chi invece dovrebbe proteggerti e proteggere la tua libertà di espressione. Un atto politicamente connotato che incrina la bella superficie della democrazia facendola crepare pericolosamente verso una democratura.

Poiché, come si è detto, le parole creano immaginario e realtà, ecco che arriva, a pochi giorni dalla segnalazione da parte del Ministero della Difesa della scrittrice e intellettuale Michela Murgia come colei che ha offeso le Forze Armate e le Forze dell’Ordine, un’intimidazione alla stazione Termini di Roma da parte di un carabiniere al controllo dell’autocertificazione, dopo averla riconosciuta. “Le fa paura la mia divisa?” Anche io avrei risposto di sì, in questo momento sì, se la persona che dovrebbe limitarsi a controllare i miei documenti, senza sindacare sulle mie opinioni politiche, mi liquida con un “vada, vada che è meglio.” Le azioni fanno ancora più paura delle parole, soprattutto se esercitate da una Istituzione contro una privata cittadina, al netto della sua visibilità derivante dalla sua professione.

E quella privata cittadina potrei essere io, potrebbe essere chiunque, qualora esprima un dissenso a quanto pare non tollerato. Questo è un problema. In democrazia il dissenso va tutelato e protetto come la linfa più preziosa dell’impianto democratico sul quale si regge il nostro vivere associato, e col dissenso si dialoga attraverso un confronto retorico, non un conflitto pratico. Il conflitto pratico è, ancora una volta, del campo di guerra. Esprimo con queste riflessioni la mia piena solidarietà a Michela Murgia, con l’augurio che tutti e tutte le cittadine italiane vogliano chiedere conto alle Istituzioni di un atto di intimidazione simile.