La strage di Gaza continua a gravare pesantemente sulle elezioni americane e sulla nazione che ad Israele è legata più inestricabilmente di ogni altra. Al crescente coro di critiche si è aggiunta questa settimana una dichiarazione che sarebbe stata storicamente impensabile prima degli eventi degli ultimi mesi.

Il “senior senator” di New York, Chuck Schumer, decano ebreo del Congresso, nonché presidente del Senato americano, ha invocato nuove elezioni per sostituire il governo di Benjamin Netanyahu che, ha affermato, “ha ormai perso la strada” e anteposto la propria ambizione politica agli interessi del suo paese. Schumer è sostenitore storico di Israele e fra i politici che hanno condannato più duramente gli attentati di Hamas, ma venerdì scorso ha avvertito che l’eccidio di civili nella Striscia intrapreso dall’attuale governo sta spingendo il sostegno ad Israele verso minimi storici e che questa “non può sopravvivere se diventerà un paria internazionale.”

Nel contesto degli equilibri di potere che hanno plasmato le politiche mediorientali degli Stati uniti dal dopoguerra, del peso di Schumer (e di New York) nell’influenza jewish a Washington e Gerusalemme e dello storico asse israeliano-americano, le parole di Schumer sono pesate come macigni e, allo stesso tempo, potrebbero paradossalmente non contare più di tanto. Le critiche sono, infatti, state respinte perentoriamente dal premier israeliano che domenica è apparso sui talk americani per contrattaccare Schumer. Tal Heinrich, portavoce del gabinetto Netanyahu ha dichiarato che Israele “non interviene nella politica americane e che si aspetta lo stesso rispetto”.

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Una palese menzogna da parte di uno stato per cui lavorano alcune delle più efficienti e ben finanziate lobby di Washington (lo stesso premier ha una lunga storia di “interventi” negli affari degli “amici americani” come il suo discorso al Congresso nel 2015 per sabotare le aperture di Obama a Teheran). Di fatto Netanyahu è sempre più allineato, non con il partito per cui da sempre vota la stragrande maggioranza degli ebrei americani, quello democratico, ma con il Gop blindato da Donald Trump.

Un allineamento reazionario che crea ulteriori problemi per Biden, iniettando incertezza sulla tenuta delle tradizionali coalizioni. In un anno in cui ogni singola componente potrebbe fare la differenza fra una vittoria e una sconfitta, la questione di Gaza rischia di costare al presidente fette sempre più consistenti dell’elettorato su cui conta, fra cui progressisti, giovani e Americani di discendenza araba. Malgrado le prese di posizioni sempre più critiche ed esplicitamente a favore di un cessate il fuoco da parte dell’amministrazione (compreso Biden e la sua vice Kamala Harris) non si percepisce ancora un’effettiva inversione di rotta.

Chuck Schumer, presidente del Senato americano, Ap
Chuck Schumer, presidente del Senato americano, Ap

Nella fattispecie non si è interrotto il flusso di armi, cosicché Netanyahu può danneggiare Biden e favorire l’alleato Trump pur continuando a ricevere forniture militari senza condizioni e gli Stati uniti si trovano nella surreale condizione di fornire aiuti umanitari via mare mentre schivano munizioni made in USA sparate su Gaza dall’alleato (il termine più adatto sarebbe probabilmente frenemy, l’idioma che designa in inglese colloquiale falsi amici e parenti serpenti).

Nella stessa settimana è divampato il caso TikTok, tornato improvvisamente alla ribalta con l’approvazione a larghissima maggioranza nella Camera dei deputati, del disegno di legge che imporrebbe alla proprietà cinese la cessione del social più frequentato al mondo.

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Il nome altisonante di Protecting Americans from Foreign Adversary Controlled Applications Act è calibrato per evocare insidiose quinte colonne subdolamente intente a sabotare la democrazia americana. Nella fattispecie la cinese ByteDance viene ritenuta troppo legata al regime di Pechino a cui potrebbe dare accesso agli oceani di dati raccolti sugli utenti e dai cui potrebbe ricevere direttive su contenuti “dannosi” da indirizzare ai cittadini americani (per par condicio, oltre alla Cina, la legge identifica come “avversari” a cui interdire il controllo di social media, la Russia, l‘Iran e la Corea del Nord). La legge ha bisogno dell’approvazione del Senato. Se arrivasse il presidente ha dichiarato che ne firmerebbe la promulgazione.

Più ambiguo invece Donald Trump che pure, nel 2020, aveva promosso una analoga misura come parte del proprio pacchetto anti cinese. Oggi l’ex presidente/candidato si è mostrato assai meno entusiasta (la sua ex portavoce, Kellyanne Conway, è una lobbista per TikTok), dichiarando che il vero nemico del Maga-pensiero semmai è Facebook (reo di censurare voci conservatrici). Mentre non vi sono prove concrete di presunte attività di spionaggio o influenza da parte di TikTok, è chiaro che la raccolta di dati personali fa parte del suo business model esattamente come nel caso di tutte le altre piattaforme. L’azione del governo non sarebbe mirata ad una maggiore regolamentazione di questo, ma semplicemente ad obbligare una vendita ad interessi americani.

A questo proposito l’ex ministro del tesoro proprio di Trump, Steven Mnuchin, ha dichiarato di voler organizzare una cordata per acquistare TikTok. La prospettiva vedrebbe il secondo dei grandi social in mano a management di estrema destra, dopo X, la piattaforma di Elon Musk che è ormai aggregatore di contenuti trumpisti (a Musk, Trump avrebbe chiesto di acquisire anche il proprio canale, Truth Social).

Nel mezzo di un anno elettorale potrebbe così costituirsi un potente polo di comunicazione filo-trumpista, in grado di influenzarne l’esito in modo assai più palese che non i presunti complotti cinesi.Sempre la scorsa settimana, l’ex vicepresidente Mike pence ha apertamente dichiarato di non sostenere la campagna di Trump, unendosi ad un crescente numero di ex componenti della sua amministrazione. In un discorso in Ohio, Trump ha definito “non persone” e ”animali” gli immigrati clandestini che attraversano il confine meridionale. Intanto l’inizio del processo per i pagamenti da lui effettuati nel 2016 alla porno star Stormy Daniels ha subito un ulteriore ritardo di un mese.

Anche gli altri tre procedimenti penali per irregolarità, interferenze elettorali e tentata sovversione dell’elezione del 2020 sono in vari stati di ritardo su richiesta degli avvocati di Trump. Ogni dilazione e rallentamento fa il gioco del candidato, allontanando la prospettiva di una risoluzione prima delle elezioni di novembre.