Non l’abbiamo mai voluto e mai lo potremo volere: siamo davvero in tanti, noi nati sullo Stretto e non con la camicia, ma con la maglietta «No Ponte» addosso. Nel corso degli anni la maglietta è diventata una bandiera, un adesivo, un braccialetto. La scritta ha preso la A di Anarchia (non abbiamo bisogno di una A: ci basta la O del NO), è diventata rossa, blu, gialla, verde, è stata scritta sui muri, sui palmi delle mani, sulle fascette da mettere in testa nei cortei. Quanto a noi, abbiamo sempre convissuto con lo spettro del ponte, come con quello del terremoto. Il terremoto, senza ulteriori aggettivi, per noi dello Stretto è uno solo, quello del 1908. Così anche il ponte è uno solo: quello di cui si parla dai tempi dei romani e dei cartaginesi e che aleggia sul nostro mare insieme ai miti, a Cola Pesce che ci sorregge sott’acqua, a Morgana che illude i naviganti di poter traversare a nuoto le sponde, a Scilla e Cariddi con i loro vortici imprevedibili. Ma se Cola è la forza, Morgana il miraggio e Scilla e Cariddi la distruzione, il ponte in fondo non è niente.

La città l’ha sempre sopportato, subito, come la mano colonialista che prima o poi si abbatterà su una città ferita dai sismi, abituata da almeno un secolo a essere considerata di passaggio dopo essere stata, dall’età classica all’Ottocento, la più elegante e indispensabile porta sul Mediterraneo di tutta la Sicilia. Parlo di Messina, ma con Reggio Calabria c’è gemellanza: due città calpestate dalla mitomania di una «grande opera» (esiste concetto più vecchio?), due città dunque delle quali si finisce per parlare solo per cancellazione o negazione. Così, lo storico movimento No ponte, che è sempre stato trasversale per appartenenze politiche (ma da quando il ponte è diventato un progetto di questo governo, a certi storici militanti di destra è improvvisamente sparita la voce), oggi si è trasformato nel più assertivo e propositivo: Invece del ponte.

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Perché siamo stufi di essere considerati quegli strambi terrapiattisti che si oppongono alle magnifiche sorti e progressive, e terremmo invece a sottolineare che noi che ci opponiamo alla devastazione che porterebbe un ecomostro inutile e dannoso, che non vogliamo e che non ci serve, al futuro e alla valorizzazione dello Stretto teniamo eccome. Vogliamo più navi, e navi migliori. Vogliamo più strutture, persino più pubblicità per i nostri luoghi. Vogliamo più turismo: non pilastri di cemento che sorreggono una strada su cui le navi sfrecciano senza fermarsi, ma navette che portino i turisti a visitare le due tele di Caravaggio custodite al museo di Messina, sul mare, di fronte alle due statue dei bronzi di Riace sulla sponda opposta. Vogliamo che la spiaggia che National Geographic ha definito la più bella d’Italia, quella del borgo di Torre Faro (l’antico borgo di pescatori che il ponte raderebbe al suolo), sia nota a tutti, non solo a noi – anche se fino a ora l’abbiamo custodita gelosamente. Vogliamo che lo Stretto sia dichiarato patrimonio mondiale, e vogliamo che su di lui si posino sì sguardi: ma di amore e di cura.

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Certo, rispetto a un anno fa il vento è cambiato. Se in tempi più recenti qualcuno taceva, persuaso che come sempre non se ne sarebbe fatto nulla, adesso l’idea di cantieri aperti, con la loro infinita gestione insensata, e con lo spauracchio di una città in tilt per un’opera che verrebbe bloccata per gli innumerevoli problemi che comporta, ha fatto tornare in piazza le persone, e ha riportato le bandiere sui balconi. Una città piena di edifici fantasma – dal vecchio ospedale Regina Margherita all’ipermercato proprio di fronte la Caronte – sedi di incendi, vandalismi e discariche da decenni, non ha bisogno anche di cantieri fantasma. E da quando è stata resa pubblica la lista delle case espropriate, la paura si è fatta concreta.

Anche chi, come l’ex sindaco Cateno De Luca, osannava il ponte ha fatto marcia indietro. Il sindaco in carica Basile si è espresso con chiarezza. L’altro ex sindaco dell’ultimo decennio, Accorinti, è lui stesso simbolo della battaglia: anni fa si arrampicò sul vecchio pilone elettrico in disuso (un’altra struttura fantasma) per protestare contro la minaccia del ponte, diventando un’icona. E tutti, proprio tutti, anche quelli che dicono sì perché sperano di guadagnare qualcosa dall’enorme movimento di soldi che a decenni alterni riempie tasche furbe, sanno che quei soldi potrebbero essere utilizzati per le cose che servono e sono urgenti, dal sistema idrico alle strade alla valorizzazione del mare, al sostegno a idee fresche e giovani, al turismo. Invece del ponte.