Nella eccentrica bibliografia dello scrittore argentino César Aira spicca, non solo per la malìa del titolo, un romanzo del 2000 chiamato Un episodio en la vida del pintor viajero, racconto delle gesta di Johann Moritz Rugendas, paesaggista tedesco dell’Ottocento che partì per un lungo viaggio sulle Ande e in Patagonia, in cerca di qualcosa che impressionasse le sue stanche rètine europee e potesse tradursi infine in nuova pittura. L’«episodio nella vita del pittore viaggiatore» è un evento naturale: una tempesta di fulmini coglie Rugendas nel mezzo delle sue peregrinazioni australi, e una saetta lo centra in pieno. Il pittore è costretto a vagare per la pampa quasi cieco, folle, avvolto in una mantiglia nera, esperendo in modo tragico (e grottesco) il suo destino di artista viaggiatore. Lontano da qualunque simbolismo, Aira si tiene in bilico tra epica e commedia nera, realizzando un ritratto di Rugendas tanto vivido quanto del tutto letterario.

Teneva molto al dichiarato rigetto dell’elemento letterario in pittura Nicolas de Staël, al quale la definizione di pittore viaggiatore calza invece alla perfezione, idealmente ma anche, se non soprattutto, in senso letterale, e la mostra parigina lo documenta con precisione. Tutto comincia d’altronde con un viaggio: quello in Africa del nord e in Spagna, penisola dove una luce prodigiosa apre il cammino dell’artista, abituato fino ad allora al tetto «grigio Fiandra» che ha colorato tutta la sua gioventù. C’è una singolare simmetria tra questo centro segreto e iniziatico, il viaggio spagnolo, e il fortunato soggiorno siciliano di vent’anni dopo, in realtà un breve viaggio che si dilata in pittura fino a formare un intero «periodo» del pittore. Staël infatti viaggia, ma non dipinge. Al più, disegna. Gli schizzi di Agrigento sono impressionanti almeno quanto i quadri: indicano prospettive rigorose eppure fantasmagoriche, traiettorie sulle quali l’occhio reinventerà, soltanto dopo, in atelier, policromie inusitate – cieli viola, mondi gialli e atmosfere rosso fuoco – a creare un nuovo spazio figurativo, setacciato dal filtro del pittore e divenuto altro, spazio fantasmatico, infestato da presenze che anziché manifestarsi si negano attraverso una esplosione, controllata, di colori.

Da quella invasione di «assenza», nella sua pittura come nella sua vita, l’artista nato a San Pietroburgo non si sarebbe più emancipato, e nelle lettere che scrive al ritorno dall’Italia se ne legge una testimonianza disperata. Pur non amando i titoli, per quel suddetto disprezzo dell’elemento letterario nel quale trovava la misura della sua distanza tanto dalle avanguardie astratte quanto dal surrealismo, Staël scelse la più evocativa delle intestazioni per una delle serie cruciali degli ultimi anni: La route. Il viaggiatore-pittore – e forse la sua segreta natura di scrittore-pittore – esce allo scoperto. Dopo il ritorno quasi liberatorio alla figurazione pura («bisogna essere più semplici, anche se è la via più difficile» scrive alla fine degli anni quaranta) con le vedute del nord della Francia e il passaggio in Sicilia, l’ultimo viaggio (pittorico) è il più scabro: la serie della «Strada» è spettrale come le più intense vedute agrigentine, ma qui i colori sono divenuti gelidi: nell’unico esemplare in mostra a Parigi, il nero, il grigio, e un bianco su cui il pittore passa e ripassa, cancella e riscrive con altro bianco. E cosa sono quegli alberi così innaturalmente inclinati verso la carreggiata? È la prospettiva distorta del guidatore? O piuttosto un gelido vento autunnale che piega le fronde? Come nel quadro-manifesto utilizzato per la locandina dell’esposizione, anche nelle Routes diventa decisivo il punto di fuga, che qui è più sfuggente, e, nel caso dell’esemplare esposto, del tutto scentrato e quasi al margine della cornice. Staël sta fuggendo. Si può pensare che anche lui sia stato fulminato nel corso delle sue peregrinazioni. Forse è stato abbagliato dalla troppa luce che penetrava dalle finestre del suo improbabile castello nel Midi, dalla stessa finestra che attraversò per lasciarsi cadere nella primavera del ’55. Forse quella dalla cui prospettiva è ritratto il bellissimo Ciel et mer dell’anno precedente. L’ultimo orizzonte vagheggiato dalle rètine raminghe di Staël.