Difficile ricordare in poche righe Lugi Saraceni, la sua sensibilità, il rigore giuridico, l’etica come criterio del suo rapportarsi ai problemi e anche la capacità di sorridere, perché era di arguta compagnia. Era una persona che non separava l’acutezza analitica e la costante tutela di garanzie e diritti di ciascuna parte nel suo esercizio di magistrato, dal desiderio di tenere ferma la necessaria critica, così delineando un sapere giuridico denso di norme sì, ma non limitato a esse, bensì volto alla costruzione di quella cultura democratica che si nutre sempre del dubbio.

«La legge – ha scritto – è esposta a quell’insopprimibile momento dell’attività giurisdizionale che è la sua interpretazione; la ricostruzione del fatto esige ascolto e dubbio critico. Fare giustizia richiede passione civile e capacità di essere imparziale, indipendente anche dalla propria passione».

La passione per la giustizia ha guidato il suo percorso da magistrato, prima, nella fase di avvio di Magistratura democratica, con uno stretto legame con Ottorino Pesce nel periodo difficile, quando con disinvoltura venivano tolte a taluni magistrati le inchieste sui casi ‘sensibili‘, poi nel dibattito teorico in seno alla stessa corrente su temi quali l’incompatibilità dei reati di opinione con un contesto effettivamente democratico, o la necessaria considerazione della tenuità del fatto, tema a cui ha dedicato molte riflessioni e che non entrerà nel nostro sistema se non quarant’anni dopo e vi rimarrà per poco tempo.

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Quella stessa passione ha tenuto insieme più aspetti del suo impegno: giuridico, politico, civile, culturale. Come parlamentare dal 1994 al 2001, sua è la legge volta a evitare il passaggio per il carcere di coloro che, condannati a una pena inferiore ai tre anni, potrebbero accedere a una misura alternativa. Una legge per diminuire quell’accentuazione selettiva – e implicitamente classista – che portava e porta a trovare in carcere persone con sentenze brevi o brevissime, spesso per carenza di propri strumenti.

La volontà di intervenire su questo tema lo indusse a condividere il percorso con un altro parlamentare, Alberto Simeone, di appartenenza politica opposta: la norma porta il cognome di entrambi. È stata invece la passione per l’impegno sociale e politico, a farlo essere attore importante in quell’area di attenzione alla legislazione dell’emergenza della fine degli anni Settanta, alle sue conseguenze sul piano processuale e su quello della cultura della giurisdizione, che ha trovato un riferimento in questo giornale, con realizzazioni editoriali sorte un po’ come supplemento un po’ in autonomia, quali Il cerchio quadrato o Antigone, fino alla neonata omonima associazione.

Muovendo dal rigore normativo individuava le vie percorribili per svelare l’inconsistenza di alcuni provvedimenti e per aprire strade diverse: fu proprio Saraceni a delineare le linee per l’eccezione d’incostituzionalità della norma sulle droghe – la Fini Giovanardi – surrettiziamente inserita nel decreto sulle Olimpiadi invernali del 2006. La stessa volontà di agire e non limitarsi a denunciare lo ha visto protagonista, insieme a Giuliano Pisapia nella difesa di Abdullah Öcalan e nelle vicende di quella sua presenza in Italia: più volte è ritornato sull’ambivalenza della concessione dell’asilo da parte del nostro Paese e del parallelo disinteresse istituzionale verso la sua situazione detentiva.

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Sono alcune delle tappe che lui stesso ha ricordato nei tre momenti autobiografici del suo Un secolo o poco più (Sellerio, 2019), riandando, nell’ordine, al ruolo fortemente formativo della figura del padre Silvio, in quei territori a cui è sempre rimasto legato, alla propria storia personale di magistrato, deputato, avvocato, alla vicenda giudiziaria di sua figlia, indossando la toga nella situazione emotivamente e oggettivamente più difficile. Ma non si possono ricordare solamente dottrina e impegno.

Perché sono la sensibilità e la curiosità culturali a rendere la pienezza della sua figura. Quella curiosità che lo portò, nel 1972 e 1973, a Venezia, al Controfestival del cinema, come rappresentante di Magistratura democratica – erano anni in cui la tessitura di saperi diversi non era stranezza, ma ne costituiva l’essenza – e a vivere attivamente questa esperienza. Quella sensibilità che lo faceva innamorare della bellezza degli aggrovigliati tronchi dei vecchi ulivi della vasta campagna attorno alla sua Castrovillari. Ne conservo le foto che mi inviò.