Nel marzo del 2020 Stefano Savona arriva a Bergamo, insieme a lui c’è un gruppo di giovani filmmaker che erano stati suoi allievi al Centro sperimentale a Palermo – sono Danny Biancardi, Sebastiano Caceffo, Alessandro Drudi, Silvia Miola, Virginia Nardelli, Benedetta Valabrega, Marta Violante. La città, come si legge nel materiale stampa del film, «dentro le sue mura, è un corpo malato. È un insieme di cellule, di tessuti, di organi che non riescono più a comunicare». Come confrontarsi allora con quella realtà di morti, dolore, stupore davanti a una parola che risuonava improvvisa: «pandemia», al più l’avevamo sentita leggendo Manzoni, pensando che mai oggi e qui potesse accadere.

LUI SI METTE IN ASCOLTO, come in ogni suo film, attento alle emozioni diffuse, collettive e insieme singolari che sembrano impossibili da definire. Le immagini ci restituiscono un tempo che oggi appare remoto, la fila di bare che attraversa quella città, divenuta subito il luogo dell’evidenza pandemica, il deserto nelle strade, il silenzio, il suono delle ambulanze. E le notti e i giorni negli ospedali, la fatica dei medici e degli infermieri, i corpi dei malati, le scelte che chi cura è obbligato a compiere – decidere chi deve morire e chi può essere ricoverato secondo le età, la situazione fisica complessiva, perché non ci sono letti, non c’è ossigeno, la contemporaneità tecnologica e avanzata è impotente, rivelando così le sue crepe.

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Stefano Savona: «Per rendere il senso della tragedia ho utilizzato l’animazione»Ma Le mura di Bergamo – presentato alla Berlinale, nella sezione Encounters, e in sala a metà marzo, non è (soltanto) la documentazione degli eventi, che in quelle immagini, forse appunto grazie alla distanza temporale, assumono una diversa profondità rispetto alla loro percezione in simultanea. Ciò che il lavoro di Savona prova a fare è costruire una sorta di memoria della pandemia declinata al presente; per forza frammentaria, parzialissima, differenziata secondo le esperienze di ogni persona. E per farlo crea tre movimenti: il primo è l’inizio, quando con coraggio, e assumendosi ogni rischio, col suo gruppo di lavoro iniziano a filmare quanto accade, lo fanno con la giusta delicatezza, tra le stanze e i corridoi degli ospedali, nel quotidiano di chi sta fuori per ragioni di necessità comuni. Raccolgono le confidenze degli operatori sanitari, la giovane dottoressa messa di fronte alla richiesta di scegliere chi curare, un trauma violento che si specchia nella malattia e nei lutti che subiscono le persone. Nel secondo movimento entra nei covid hotel dove chi è sopravvissuto deve restare fino al test negativo, e che come il signor Mario non sa trovare le parole per raccontarsi, per dire il senso di colpa di esserci ancora che è più forte del sollievo – «Avrei voluto non farcela» dice. Una signora che ha perduto il marito e il figlio e quasi non vuole tornarci a casa. Un’altra rimasta sola, vedova, che si dispera.Ogni gesto abituale appare improvvisamente fuori posto, mentre il regista prova a cogliere le emozioni assumendosi il rischio di filmare in quei primi giorni La Pasqua è una messa surreale all’aperto davanti alle loro finestre, ma in quella realtà ogni gesto quotidiano abituale appare fuori posto. Ci sono alcune figure che ritornano, tra queste la giovane donna delle pompe funebri che cerca di dare sepoltura a tutti i morti, cosa impossibile, mentre suo padre è ammalato e lei segue ogni suo battito e respiro.
Nel secondo movimento le strade pian piano si rianimano, ci sono proteste per la gestione pandemica contro il presidente della regione Lombardia, Fontana – che però è stato appena rieletto a pieni voti, un risultato che pone molte domande sui «vuoti di memoria».

NEL TERZO MOVIMENTO ritroviamo alcune delle figure che abbiamo incontrato nel corso dei mesi, hanno deciso di incontrarsi per mettere a confronto i loro stati d’animo e i loro vissuti, da guariti e da chi non si è ammalato; nelle riunioni in un giardino sulle mura di Bergamo danno un nuovo senso alle parole di narrazione condivisa, un piccolo punto di partenza attraverso il quale nominare il trauma. È questa dimensione privata dei loro stati d’animo indefinibili che lascia fuori – almeno nel film – le istituzioni, le critiche, la gestione confusa di quell’emergenza nella regione frutto di una sanità disastrata lì e nel resto d’Italia. Sono i sentimenti al centro, lo spaesamento costante, la fragilità che ha tracciato una cesura nelle ferite che partendo da sé forma un discorso politico e collettivo nel quale riconoscersi, affrontando ciò che nella percezione generale è stato rimosso. Savona si muove su questi bordi, si addentra nelle zone meno evidenti, prova a guardare ciò che c’è dietro la riconoscibilità delle immagini – viste nei tg, in rete – per coglierne il vissuto. Quanto è rimasto, quanto è stato rimosso, una ricerca necessaria per dare forma a cosa è stata la pandemia. Ma la relazione tra individuo e collettività è una delle domande che torna nel suo cinema, sia che si confronti con la rivoluzione in Egitto (Piazza Tahir) che con una occupazione di uno stabile a Palermo (Palazzo delle Aquile), e che gli permette di confrontarsi con degli interrogativi fondanti. Qui è qualcosa che rimane fuori campo, per ora, che si ritrova, e che ci emoziona senza alcuna retorica, in quei discorsi, in quel mettersi in gioco che al di là delle differenze rivela uno spazio possibile in riconoscerci insieme.