I «protagonisti» del film non hanno ancora potuto vederlo: i Samouni, la grande famiglia contadina di Gaza che si racconta nel documentario di Stefano Savona presentato ieri alla Quinzaine: La strada dei Samouni. «Entrare a Gaza non è facile» spiega infatti il regista: «Avrei voluto mostrare loro il film, fare in modo che fossero loro stessi a doppiarsi nelle sequenze di animazione» – quelle cioè di Simone Massi e del gruppo di animatori che per anni ha lavorato insieme a lui e a Savona per ricostruire sullo schermo la memoria di questa famiglia decimata durante Piombo fuso, l’operazione di guerra israeliana che ha raso al suolo Gaza nel 2008. «Ho solo potuto raccontargli il film – continua il regista che ha conosciuto i Samouni al termine di quella guerra – ma già 10 anni fa gli ho promesso che sarei tornato per farglielo vedere».

Come è nato il progetto?

Durante Piombo fuso sono andato a Gaza con una telecamera con l’intenzione di superare l’embargo delle immagini, per filmare e mostrare la guerra giorno dopo giorno. Poi questo lavoro è diventato un film, Piombo fuso, che raccontava la vita sotto le macerie. Alla fine del conflitto sono partito perGaza City, pronto a tornare a casa, e lì ho scoperto la vicenda dei Samouni: ho capito così che la storia che volevo raccontare era appena cominciata. Loro mi hanno ’adottato’, e sono rimasto a filmare. Poi quando un anno dopo c’è stato il primo matrimonio dopo la tragedia che aveva colpito la famiglia mi è sembrato inevitabile tornare da loro. Ma più riprendevo più mi rendevo conto che mancava qualcosa, quel passato di cui parlavano sempre e che volevo conoscere. E a quel punto per poterlo raccontare nel film abbiamo pensato all’animazione.

Come ci avete lavorato?

Volevamo che le sequenze animate fossero affini alla materia documentaria del film, e per fortuna abbiamo scoperto il cinema d’animazione di Simone Massi, che ci ha dato una chiave visiva per la narrazione. Ma per realizzarla ci sono voluti altri cinque anni, perché abbiamo dovuto trasformare il lavoro artigianale di un artista schivo, che lavora da solo, in una collaborazione con altri venticinque animatori che hanno fatto propria una memoria che non gli apparteneva e l’hanno trasformata in materia viva.

Come avete realizzato i filmati dei droni israeliani che bombardando la casa dei Samouni?

Dopo Piombo fuso c’è stato il Rapporto Goldstone dell’Onu, che raccontava i crimini di guerra commessi da entrambe le parti. E in questo documento la storia dei Samouni era una di quelle più emblematiche del dolo dell’esercito israeliano nel bombardare i civili. In seguito lo stesso esercito ha aperto una commissione interna per indagare la catena di responsabilità. Non tutti i dati di quella commissione sono pubblici ma «Haaretz» ne ha pubblicato un estratto, sul quale ci siamo basati nelle sequenze del film dal punto di vista dei droni israeliani, realizzate da noi con una grafica tridimensionale.

Gli eventi raccontati dal film risalgono a molto tempo fa, ma si parla di una situazione ancora di grande attualità.

Proprio per questo ho realizzato il film in questo modo: non si può, neanche con le migliori intenzioni, partecipare a un processo di semplificazione. Dobbiamo assumerci la responsabilità di raccontare una storia complessa, che non si può capire guardando solo le macerie. La vicenda dei Samouni è una goccia nella storia del conflitto tra Israele e Palestina, che in realtà non esiste perché è partigiana, fatta dai due lati opposti di un confine, da persone che non conoscono chi sta dall’altra parte e che parlano dal loro punto di vista. Ma per noi da «fuori» un atteggiamento simile non è giustificabile, anche se poi è normale empatizzare: io sono entrato a Gaza e quelle storie le ho vissute dalla parte dei palestinesi.