La casa di un solo piano ha forme arrotondate e color crema. Fuori il giardino è ricoperto di sterpaglie. Due finestre sono murate. Appena si entra, appare la porta di una cella. Nella prima stanza l’attenzione è attirata da un buco sul muro. «L’HA APERTO L’ISIS, durante i combattimenti, per scappare senza farsi vedere dalle forze curde», ci dicono. All’interno ci sono sei stanze, per terra bottiglie d’acqua vuote, scarpe da donne impolverate, brandelli di vestiti, cucchiaini di plastica.

Sulla parete di una camera senza finestre è stata disegnata una freccia rossa: «Così i miliziani islamisti indicavano la direzione della Mecca». Questa casa, nel villaggio di Tilezer nella piana di Ninive, era una prigione per le donne ezide schiavizzate dall’Isis durante l’occupazione della regione di Shengal (Sinjar in arabo). «È rimasta nelle mani dell’Isis fino al 29 maggio 2017 – ci racconta Faris Harbo, responsabile della diplomazia dell’amministrazione dell’autonomia di Shengal – Quando le forze di autodifesa ezida Ybs e le milizie sciite sono arrivate, gli islamisti sono scappati senza combattere. Sono entrato in quella casa. C’erano i segni di quello che era successo lì dentro. Ma nessuna donna. Non ce n’era più nessuna».

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IN QUELLE SEI STANZE
erano state rese schiave dopo il massacro del 3 agosto 2014, almeno 10mila uccisi. Quel giorno in poche ore gli islamisti hanno occupato questa regione nel nord-ovest dell’Iraq, togliendola al molle controllo di peshmerga ed esercito iracheno.

I soldati di Erbil e di Baghdad si sono ritirati senza combattere mentre lo Stato islamico proseguiva nella sua avanzata irachena, appena due mesi dopo la presa (in 48 ore) di Mosul, trasformata in poche settimane nella seconda capitale del «califfato» insieme alla siriana Raqqa. I 500mila ezidi di Shengal hanno tentato di difendersi, con le poche armi e munizioni a disposizione: «Le armi migliori, quelle arrivate dalla Germania, sono state convogliate su Erbil. A noi hanno lasciato i fucili degli anni Settanta», dice un ezida ex membro del settimo battaglione dei peshmerga. Shengal è caduta in sette, otto ore. Come il villaggio di Girzerik: gli islamisti hanno ucciso gli uomini, rapito le donne, seppellito 74 persone in una fossa comune di fronte a una bella casa di due piani. Sopra le montagnole di terra hanno preso il sopravvento ciuffi di cardi. Nessuno ha mai riesumato quei corpi: la zona è piena di mine, eredità dell’Isis in fuga, e le richieste di intervento alle autorità di Baghdad sono ancora senza risposta.

INTORNO C’È UN VILLAGGIO fantasma. L’intera popolazione è scomparsa, uccisa o fuggita. Per anni Girzerik è stato interamente in mano allo Stato islamico , fino alla liberazione di Shengal City nel novembre 2015 e del resto delle comunità nei mesi successivi. Negozi sventrati, erbacce che si sono fatte strada nel cemento, sui muri i segni della battaglia tra islamisti e le unità di autodifesa del Rojava, Ypg e Ypj.

E POI IMMONDIZIA dentro le case, sedie rotte, un frigorifero spento, saracinesche divelte. Il panorama è spiazzante, strade di cemento assolate senza anima viva. Un orizzonte diverso ma uguale a quello della città vecchia di Shengal City. Lì sono le macerie a narrare la guerra, gli scontri strada per strada tra islamisti e curdi e i bombardamenti americani, lanciati da Obama proprio nell’agosto 2014, quando il mondo scoprì la popolazione ezidi con la sua fuga sul monte Sinjar, senza cibo, acqua né ripari.

LE CASE SONO SVUOTATE, accartocciate su se stesse, pezzi di ferro liberati dal cemento puntano in ogni direzione. Nessuna ricostruzione in vista, mancano i soldi sì ma i piani sono comunque altri, spiega il co-presidente dell’Assemblea del popolo di Shengal, Haso Hibraim: «Non vogliamo ricostruire, vogliamo che quelle macerie restino dove sono a riprova del massacro subito dal nostro popolo».

Lassù, sul monte Sinjar, con temperature di 45 gradi, con in braccio solo i figli, le famiglie ezide sono arrivate a piedi per lasciarsi alle spalle la ferocia dello Stato islamico. Sono saliti in montagna, per giorni senza cibo né riparo, finché le Ypg e le Ypj arrivate dalla vicina Rojava, insieme a combattenti del Pkk, sono riuscite ad aprire un corridoio umanitario verso la Siria del Nord e il Kurdistan iracheno.

DI QUEGLI SFOLLATI, la metà non sono ancora tornati: 250mila si dividono tra i campi profughi, troppo spaventati per tornare o senza una porta di casa da riaprire, e tra la diaspora in Germania. Moltissime donne non sono ancora state trovate, almeno 1.117 delle 5mila rapite nell’agosto 2014 e rese schiave, vendute al mercato di Mosul, passate di mano in mano, stuprate innumerevoli volte.

Sul monte però è successo anche altro. La comunità ezidi si è ricomposta e ha iniziato a lavorare sul proprio futuro. L’influenza della teorizzazione del leader del Pkk Abdullah Ocalan e del confederalismo democratico del Rojava, penetrati e assorbiti insieme alla controffensiva contro l’Isis, è diventata un modello possibile.

È così nata l’autonomia di Shengal, regione storicamente contesa dai pesi massimi e anche da quelli minimi regionali, dalla Turchia e i suoi sogni di gloria pan-turchi (non a caso qui i caccia di Ankara hanno sganciato bombe dopo la cacciata dell’Isis) al governo centrale di Baghdad fino a quello regionale del Kurdistan iracheno.

LA BATTAGLIA CONTRO SHENGAL si è data nuovi mezzi lo scorso 9 ottobre con un accordo bilaterale (con la supervisione turca) tra Erbil e Baghdad e che ha escluso l’autonomia ezida: alla base sta il disarmo delle forze di autodifesa maschili e femminili, le Ybs e le Yjs, ma anche la nomina di un nuovo sindaco (quello «ufficiale» è in esilio a Duhok) e vaghi piani di ricostruzione. Tutto in mano a Iraq e Kurdistan iracheno. «Sulla nostra testa pesa il mancato riconoscimento del governo autonomo – spiega Leyla Kasim, la co-presidente dell’amministrazione – Gli altri governi vogliono tornare qui come se nel frattempo non ci fosse stato alcun massacro e come se non fossero fuggiti invece di difenderci. Non ci hanno coinvolto nel loro accordo. La nostra richiesta è chiara: vogliamo uno status ufficiale per Shengal».

Nella sala al secondo piano dell’amministrazione, a poca distanza dalle macerie della città vecchia, la co-presidente ci accoglie insieme ai responsabili, uomini e donne, di alcuni dei comitati creati per la gestione dei vari aspetti della vita politica e sociale ezida: i comitati ai giovani, alla cultura, alla salute, alla scuola. «Alla base della nostra autogestione c’è l’Assemblea del popolo creata subito dopo il massacro. L’amministrazione è stata invece creata nel 2017. L’obiettivo è prendersi cura della nostra società, difenderla da altri potenziali massacri e ascoltare le sue richieste».

Il sistema è molto simile a quello del vicino Rojava. «L’amministrazione si riunisce ogni mese per affrontare i temi e le priorità individuate dall’Assemblea del popolo», continua Kasim. «Sulle montagne abbiamo seminato quello che vedete oggi – aggiunge Masad, responsabile del comitato alla cultura – Abbiamo creato i primi gruppi di formazione e le forze di autodifesa. Oggi dobbiamo tutelare quel sistema». Che in qualche modo, ci spiegano nella grande sala circolare bianca e viola dove si riunisce l’Assemblea, riprende caratteristiche ataviche della comunità ezida: la condivisione e la cooperazione, la messa in comune dei mezzi, soprattutto in agricoltura, l’ecologia, i riflessi di un antico «matriarcato».

SI OPERA COME UNA PIRAMIDE. Alla base stanno le assemblee (tutte con due co-presidenti, una donna e un uomo) dei quartieri e quelle dei villaggi che nominano rappresentanti all’Assemblea del popolo. Sono 73 membri, uno per ogni massacro subito nella storia dagli ezidi. Così nascono le leggi interne, si ascoltano le esigenze e si cerca una soluzione.

Intanto sul monte Sinjar, il rifugio di ieri e l’amico di oggi, tra i terrazzamenti agricoli e le tende che ancora ospitano migliaia di sfollati, riposano i corpi dei martiri. Nel cimitero, ben curato, file di tombe bianche danno un nome a chi è morto per liberare Shengal ma anche le città irachene e della vicina Rojava. Ci sono le date di nascita e di morte, il luogo in cui sono caduti. Alcune lapidi sono avvolte in una kefiah. Un piccolo gruppo di anziani, membri dell’associazione dei familiari dei martiri, sintetizza il dolore: «Non vogliamo che tutto quello che è nato dal sangue e il sacrificio, l’autonomia, l’Assemblea del popolo, l’autodifesa, svanisca», dice la madre di un giovane ucciso a Serekaniye. Un bambino si abbraccia al nonno. Lui ha perso il suo papà.