Sonora e brutale, la sconfitta della sinistra è arrivata pesante e netta. Parlavamo di cattivi presagi più che di convinte speranze, e purtroppo non siamo stati smentiti.

Il flop della lista di Liberi e Uguali è tutto racchiuso in quella percentuale del 3,4%, la stessa del partito di Vendola e Fratojanni nelle elezioni del 2013, allora alleati con Bersani. I fuoriusciti del Pd non hanno trovato un consenso elettorale e per ricostruire una sinistra non basterà qualche aggiustamento, non lo consente il terremoto politico provocato dalle elezioni.

Un paese diviso a metà tra Lega e 5Stelle è lo specchio della società che il voto ci restituisce, obbligando tutti a riflettere sul distacco della sinistra dalla vita del paese, sulle risposte mancate o troppo pigre al disastro sociale provocato dalla crisi, sulla sottovalutazione dell’impresentabilità della classe dirigente che ci ritroviamo. Perché ci sono pochi dubbi sulla radicalità della protesta espressa da questo voto.

E se le forme e i contenuti che essa esprime non sempre fanno della società civile un esempio di virtù, girare la faccia dall’altra parte, regalarsi fittizie consolazioni non serve più, e da gran tempo. A Macerata, altro territorio interessante di questo voto, la Lega ha vinto. Ora anche noi abbiamo un bel partito lepenista da combattere, come in Europa, come in Francia, come in Germania, come nei paesi dell’Est europeo.

Questo sarà naturalmente oggetto della discussione che la lista di Grasso farà dopo la sconfitta, ammessa senza scuse come la delusione rispetto alle attese. Si ricomincia da tre, cioè dal piccolo zoccolo che ha permesso di superare faticosamente la soglia di sbarramento del Rosatellum. E in questa discussione entrerà giocoforza la valutazione del risultato dei 5Stelle.

I voti persi da Renzi non sono andati a Leu ma più realisticamente, almeno in parte, ai 5Stelle, protagonisti di una escalation che ha colorato di giallo mezza Italia, l’Italia del Sud, da ieri trasformata in un monocolore. Un voto che oltrepassando anche il 60% ha dentro tutto, come succede quando un fiume rompe gli argini. Nell’analisi sugli 11 milioni di elettori guadagnati dai figli di Grillo e Casaleggio, sarà interessante guardare ai flussi, ma già si capisce che un travaso dal Pd ai 5Stelle c’è stato. Hanno vinto i duelli nei seggi uninominali per il senato di Campania, Puglia (governata dal grillino Emiliano del partito democratico), e Sicilia, dove i 5Stelle profittano del crollo interno al centrodestra, dello sfarinamento delle correnti democristian-berlusconiane. Anche la Sardegna è a 5Stelle.

Per questo, prima si abbandonano gli occhiali della propaganda e prima si comincerà a non accontentarsi di equiparare questo 32% a una delle tante facce della destra. A meno di non voler regalare alla marea nera anche gli 11 milioni di cittadini a 5Stelle, oltre a quelli che hanno scelto Salvini e il centrodestra.

Nel grande gioco delle coalizioni, Di Maio gioca da protagonista, e si presenta con la camicia del primo della classe, sicuro e già pronto alla fase due, quella del governo, dei punti del programma sui quali tutti gli altri attori in campo sono chiamati a rispondere. Salario, pensioni, precarietà, lavoro e reddito di cittadinanza ecco alcuni cavalli di battaglia sul piatto delle trattative di governo.

Renzi, annunciando ieri le sue dimissioni da segretario, ha fatto capire che non se ne andrà. Anzi chiama il partito a una specie di resa dei conti congressuale e intanto dice qual è la linea da portare al Quirinale nelle consultazioni, ovvero «con gli estremisti mai», dunque se (forse) lascerà la segreteria ciò avverrà solo dopo la formazione del governo che non lo vedrà partecipe di alleanze con i 5Stelle.

La botta è stata così forte che il dimissionario segretario si è fatto gran vanto di essere stato eletto senatore della Repubblica, individuando nel recinto fiorentino il suo rifugio politico. Ricordiamo tutti lo slogan «saremo il primo gruppo parlamentare», quando credeva che la legge elettorale gli avrebbe consentito di far man bassa nei collegi. Oggi il Pd, rottamato al 18%, vale quanto la Lega di Salvini che, proprio grazie al Rosatellum, avrà il doppio dei parlamentari di Renzi.

Il leader Pd non riesce ad accusare il colpo e ripete un po’ ossessivamente «quanto bene abbiamo fatto, non siamo stati capiti», perdendosi dietro inutili rimpianti sulla mancata elezione di Minniti a Pesaro (ma il ministro sarà in parlamento perché gode del paracadute al proporzionale). Sembra frastornato e parla delle prossime primarie, puntando il dito contro chi, nel Pd, vorrebbe commissariarlo.

Se continua l’emorragia, le sue primarie saranno più che l’occasione per un improbabile rilancio, un ultimo esorcismo.