La Piazza la sera è di nuovo affollata come le strade cittadine di sole bollente – a dispetto di una meteo annunciata capricciosa che faceva temere l’organizzazione: il festival di Locarno compie 75 anni, un’occasione celebrata raccontandone le storie e con tra gli ospiti le persone che vi hanno lavorato nel tempo, ma soprattutto – e come sempre – con il cinema che «liberato» dalle norme sanitarie del Covid prova a reinventare il proprio futuro. Una scommessa qui ancora più forte vista la cifra «indipendente» che caratterizza le scelte della manifestazione, raccolta e rilanciata dalla direzione di Giona A. Nazzaro che ne ha ampliato i confini in una proposta eterogenea, mescolando produzioni piccole e cinema industriale verso quella reinvenzione necessaria a fronteggiare la crisi che il cinema – e quello indipendente in particolare modo – sta attraversando ovunque.

ECCOCI QUINDI il primo pomeriggio di un sabato estivo nella sala del GranRex per la magnifica retrospettiva di Douglas Sirk curata da Roberto Turigliatto e Bernard Eisenchitz – e accompagnata dal volume prezioso, su cui torneremo, di Bernard Eisenchitz Douglas Sirk, né Detlef Sirk. Si proietta All That Heaven Allows (1955) – uscito da noi come Secondo amore – a presentarlo c’è Jon Halliday autore di quel Sirk on Sirk (1970) la lunga intervista rimasta un riferimento fondamentale nello studio dell’autore emigrato dalla Germania nazista in America, la cui riedizione definitiva del 1997 è ora pubblicata in italiano – a cura di Andrea Inzerillo – come Lo specchio della vita (il Saggiatore ).

“Il pataffio” di Francesco Lagi, foto di Loris Zambelli

Halliday ricorda gli inizi a teatro di Sirk, parla della loro amicizia, non c’è quasi una sedia libera, le retrospettive sono sempre stati uno degli appuntamenti più seguiti e amati al festival svizzero. La copia è bellissima – viene dalla Cineteca slovena ma non ha i sottotitoli – la storia a cui si sono ispirati Todd Haynes per Far From Heaven (Lontano dal Paradiso, 2002) e prima ancora R.W.Fassbinder nella stridente istantanea della Germania del tempo (e non solo) che è E tutti lo chiamano Alì (1973) è quella di un amore impossibile tra una vedova della buona borghesia (Jane Wyman) e l’affascinante giardiniere (Rock Hudson): questione di classe, di crudeltà, di un ambiente sfinito e egoista da cui affiora la società americana osservata senza compiacimento né mitologie. La protagonista (Wyman), donna spaventata da sé stessa, ne incarna le contraddizioni e i limiti: impigliata nei suoi doveri di classe, di madre, con figli esigenti e infantilmente egoisti, per i quali l’apparenza (di classe ovviamente) merita ogni sacrificio, quello della madre per primo – anche se presto l’abbandoneranno immaginandola risposata magari con qualche vecchio riccone loro pari o sola chiusa in casa davanti alla tv. É questa la modernità del film, la sua forza al di là del contesto e dell’epoca? Il modo drammatico e totale con cui illumina gli sliding doors dell’esistenza davanti ai quali ci si trova in ogni tempo? L’assoluto spazio del sentimento nella messinscena che rivela però il cinismo di un mondo e delle figure che lo popolano?

“Il Pataffio” è tratto dal romanzo di Luigi Malerba ambientato in un medioevo di miseria e di fame che parla una lingua strana tra il latino e il romanesco. Il riferimento all’Armata Brancaleone monicelliana è già lì

IN CONCORSO per l’Italia è stato presentato ieri il film di Francesco Lagi, autore «obliquo» nel nostro cinema che aveva esordito nel 2011 con lo sbilenco Missione di pace seguito poi da Quasi Natale (2019), da serie per Netflix e dal lavoro a teatro col suo gruppo.
Il Pataffio è tratto dal romanzo di Luigi Malerba (quodlibet) ambientato in un medioevo di miseria e di fame che parla una lingua strana tra il latino e il romanesco. Il riferimento all’Armata Brancaleone monicelliana è già lì, Lagi lo raccoglie – nel suo cast c’è anche Alessandro Gassmann quasi a giocare esplicitamente con questa eredità – ma prova a spostare un poco l’asse degli equilibri dall’on the road in un microcosmo chiuso in cui a dispetto della classe, signori e villani, condividono la stessa sorte di stare a stomaco vuoto. Forse perché il protagonista, il Marconte Berlocchio (Lino Musella che si conferma uno dei volti italiani più mobili della scena attuale) era a sua volta una stalliere prima di essere insignito di titolo nobiliare creato ad hoc per lui dal sovrano di cui ha sposato la figliola Bernarda (Viviava Cangiano), chioma rossa e corpo immenso con sogni erotici che la vedono protagonista insieme agli eroici cavalieri della Tavola Rotonda.

IN DOTE il Marconte ha avuto un feudo lontano e un’armata scassata con due soldati che si amano e la notte fanno sesso in tenda mentre la povera Bernarda è costretta a struggersi in una a lunga attesa per «consumare» le nozze – perché poi lui non sembra averne così voglia. Ci sono anche un frate molto poco santo (Gassmann)e un contabile (Tirabassi) che sa leggere e scrivere in questa compagine degli ultimi che si presenta nel castello in mano ai villani e abitato da capre e galline. Il Marconte non pare a suo agio nel governare e inizia subito a reprimere provocando la reazione degli abitanti, una comunità tosta e un po’ anarchica che si lascia guidare dal «disoccupato» Migone (Valerio Mastandrea).
Lagi inventa una geografia (possibile) di questo medioevo nel paesaggio che guarda a tanti altri e insieme appartiene a quella realtà, fatto di sassi e di un orizzonte senza vie di fuga dove i due gruppi di fronteggiano destinandosi a soccombere alla fame comune e a qualche potere – come si sa accade e non solo nel medioevo. Sono i loro corpi a delineare la narrazione, gli umori del sesso, della pancia che brontola e si contorce perché non ha cibo o perché ha mangiato fino schiattare dopo giorni a definirli, a dircene le emozioni e le fantasie, a ondeggiare sul confine tra la vita e la morte. Un equilibrio complicato che non è facile tenere saldamente, e che se a volte sfugge, testimonia però di un fare cinema che prova a muoversi tra le sue «eredità» guardando al contemporaneo.