Presentato a Cannes nel programma della Quinzaine, il nuovo film di Alejandro Jodorowsky, Poesia sin fin, riprende il discorso del precedente La danza de la realidad, ed evoca subito, sin dal titolo, i primissimi passi cinematografici di Jodo. Il suo, infatti, è un Teatro sin fin, titolo di un cortometraggio che risale al 1965, che si rigenera instancabile e sfrontato.

Se La danza de la realidad si offriva in contro luce, incanalandola nel rapporto conflittuale del giovane Alejandro con il padre tiranno come una riflessione sulla diaspora ebraica in America latina, Poesia sin fin, attraverso il filtro dell’ossessione paterna, mette in scena il romanzo di formazione di uomo che sceglie di essere poeta.

Ovviamente nel caso di Jodorowsky poesia va inteso nel senso più ampio possibile: come poiesis, ossia creazione e procreazione.

Fautore di una auto-mitopoiesi instancabile (una forma di autopromozione iniziatica, verrebbe voglia di dire con una punta di malizia…), con l’ausilio del direttore della fotografia di Wong Kar-wai, il mercuriale Chris Doyle, Jodorowsky crea un rutilante universo visivo, letterario e cinematografico che, pur non presentando sostanziali elementi di novità, si offre con lo spudorato candore esibizionista di un’antianalisi in progress nella quale il cinema è solo una piccola parte del tutto. D’altronde cosa aspettarsi da chi sul finire del film annuncia serissimo la sua partenza: «Vado a Parigi. Mi unisco al gruppo di André Breton. Salverò il surrealismo».

E se l’arrembante entusiasmo visivo inevitabilmente evoca un altro cinema e addirittura un altro mondo, Jodo è l’ambasciatore di un utopismo che ha segnato drammaticamente la controcultura occidentale del ventesimo secolo, non si può non sorridere di fronte all’ingenuità di alcune delle sue massime più arrischiate riguardanti la vita e i suoi presunti significati.

Citarle decontestualizzate dal film sarebbe poco corretto perché esse vivono nel continuum di un flusso organico nel quale il pensiero e il gesto, la creazione e il sangue mestruale sono elementi che partecipano tutti, a merito, alla celebrazione dei misteri dell’esistenza.

Misteri che senza nani e clown ovviamente sarebbero meno… misteriosi. Se prendere tutto ciò seriamente o con un pizzico di grano salis dipende solo dal singolo spettatore.

Jodorowsky è talmente sincero da esserlo persino, o addirittura, nella sua dichiarata «furbizia» oracolare. Il sesso, ovviamente, gioca un ruolo di primissimo piano ed è ovunque.

Omaggio al Cile e alla sua stagione di creatività insurrezionale, mentre il fascismo non dorme mai, anzi ritorna sempre, Jodorowsky pianifica la rivoluzione globale, permanente, palingenetica.

Ed è proprio questa sincerità assolutizzante che gli permette di ricreare nel finale un colpo di teatro tale, viscerale nella sua cruda nudità, da risultare commovente come un’agnizione matarazziana.