L’hanno chiamata in molti modi diversi, ma qui in Russia il nome più efficace è “Generazione P”, la generazione di quelli nati a partire dal 2000, l’anno in cui Vladimir Putin è salito per la prima volta al Cremlino. Nel corso della loro vita non hanno visto altro. Eppure alle elezioni cominciate ieri in Russia molti non prenderanno parte. Decine e decine di migliaia hanno lasciato il paese per evitare di combattere in Ucraina, per non essere coinvolti in quel che accade o semplicemente per non sentirsi complici.

«Io credo che non abbia alcun senso sistemarsi in fila indiana per mettere una croce su una scheda», dice uno di loro, un certo Dan Lipatskij, un tipo alto e loquace che avevo conosciuto a Mosca alla vigilia delle ultime presidenziali, nel 2018: allora, appena maggiorenne, aspettava di votare per la prima volta, e la cosa sembrava appassionarlo; adesso, a 24 anni, vive a Yerevan, in Armenia, lontano da casa e da tutto quello che la casa è diventata.

DI DAN LIPATSKIJ, come detto, ce ne sono decine di migliaia. Per ora alle autorità la categoria non sembra interessare troppo. La priorità è garantire che il sistema avanzi e non incontri spigoli, e quindi che la guida di Putin sia legittimata nuovamente. Alla vigilia del voto il capo del Cremlino in persona ha chiesto ai cittadini con un messaggio video la consueta prova di patriottismo. Che significa: voto di massa per il presidente, dato che rivali di fatto non ce ne sono.

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Governatori, dirigenti e funzionari pubblici hanno dato il loro esempio già ieri, nella prima giornata di questo fine settimana elettorale, in molti casi a favore di telecamera. Il ministro degli esteri Sergeij Lavrov, nell’aula di una scuola con le pareti verdi pastello. Quello della difesa Sergeij Shoigu, accanto al generale Valerij Gerasimov in un seggio allestito con la bandiera delle forze armate: da settimane i due non si vedevano insieme. Il livello di attenzione degli apparati di sicurezza è massimo, in stazioni e aeroporti i controlli sono ossessivi. Non è alle urne che la cerchia di Putin teme sorprese, bensì là fuori, nelle grandi città. A San Pietroburgo una ventenne ha lanciato una bottiglia molotov contro un seggio, fortunatamente senza feriti. In un seggio di Mosca una donna è stata arrestata dopo aver riempito di un colorante verde un’urna già piena di schede – sotto una telecamera, video subito virale. Incidenti analoghi sono stati segnalati a Rostov sul Don e Karacaj in Circassia. La presidente della commissione elettorale Ella Pamfilova li ha definiti agenti «di bastardi venuti dall’estero»: 13 arresti. A Belgorod, nel sud della Russia, e nelle regioni occupate dell’Ucraina la situazione è ancora più pericolosa.

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IN TUTTO QUESTO si stima che i giovani russi fuggiti dall’inizio della guerra siano novecentomila. I primi ad andarsene all’indomani dell’invasione sono stati giornalisti, attivisti, ingegneri, esperti di nuove tecnologie. Poi è stata la volta dei ventenni della classe media, e di questa ondata fa parte Lipatskij, che a Mosca gestiva una sala di registrazione e a Yerevan raccoglie qualche soldo con lavoretti saltuari. Infine se ne sono andati quelli che non volevano essere mobilitati. Città come Tbilisi in Georgia, Almaty in Kazakhstan, e persino Bishkek in Kirghizistan, da cui provengono gli immigrati che a Mosca e San Pietroburgo svolgono le professioni più umili, si sono improvvisamente riempite di tatuatori russi, registi, baristi, esperti di cinema, studiosi di lettere straniere. Molti, dice Lipatskij, sono già tornati in Russia: «Credono che il peggio sia passato, non ne sono convinto».

Esiste naturalmente la questione aperta della responsabilità. Che cosa lascerà alla Russia questa generazione? Cosa diranno quando qualcuno chiederà loro: dove eravate quando si trattava di combattere per un’alternativa? Sul punto neanche Lipatskij è arrivato a una conclusione. «Prendete Navalny», dice: «Era un uomo pieno di coraggio che è andato incontro alla morte per difendere i princìpi in cui credeva. Io lo considero un eroe. Cosa succederebbe se tornassimo in Russia per protestare? Probabilmente metterebbero in carcere anche noi. Certo, sarebbe eroico. Ma che cosa potrebbe farsene il nostro paese di migliaia di eroi in prigione? Ho pensato che avrei potuto fare qualcosa da qui. La verità è che nessuno sa che cosa fare».

LIPATSKIJ DICE che non tornerà in patria almeno per i prossimi dieci anni. Mai prima d’ora un gruppo così consistente di giovani aveva lasciato la Russia. Il paragone più realistico, secondo lui, è con il periodo immediatamente successivo al 1917: «I monarchici, i bianchi, i russi di Brighton Beach». Ora, però, è la rivoluzione che se l’è data a gambe. Quelli di oggi non sono esuli in senso stretto e nemmeno rifugiati. Alcuni sperano che le cose cambino, altri aspettano un documento per allontanarsi ancora di più. Appartengono a una generazione che si è perduta, che Putin ha perso per primo, e che la Russia rischia di perdere per sempre.