Che la rielezione di Ursula von der Leyen alla presidenza della Commissione europea fosse impresa ardua e pericolante, minacciata da schiere di franchi tiratori, è sempre stata una colorita messa in scena accuratamente cucita sullo sfacciato opportunismo della candidata. La sua apertura alla destra, o almeno alla sua componente più atlantista, sostenuta anche dal presidente del Ppe Manfred Weber, non rappresentava solo uno strumento di ricatto nei confronti della vecchia maggioranza con socialdemocratici e liberali.

Possedeva anche lo spessore di una prospettiva convinta, concreta e politicamente ragionata a partire da tre punti ben precisi: il massiccio riarmo dell’Europa e lo sviluppo della sua industria bellica, la progressiva restrizione del diritto d’asilo e il respingimento dei migranti con l’ausilio retribuito (in termini economici e politici) dei regimi del Maghreb, il ridimensionamento del Green Deal in ossequio agli interessi corporativi e settoriali quasi ovunque sostenuti dalle destre europee.

Se quella apertura non è andata in porto è solo perché alle elezioni europee di giugno l’onda nera, pur forte, non è stata sufficiente a rovesciare gli equilibri politici nel Parlamento di Strasburgo. Ma anche perché socialisti e liberali, e in parte pure i verdi, hanno assunto su questi temi posizioni non molto dissimili da quelle del Ppe.

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I due primi punti restano comunque al centro del secondo mandato di Ursula von der Leyen, del resto in buona sintonia con socialisti, liberali e dirigenze verdi, pronti ad accontentarsi di enfatiche rassicurazioni sui diritti umani, regolarmente calpestasti sotto gli occhi di tutti, per quanto riguarda i migranti, e del sostegno, apparentemente incondizionato, a Kiev ma senza alcuna autonoma prospettiva geopolitica o diplomatica. In buona sostanza l’Unione europea non ha alcuna idea sulla futura convivenza con il suo ingombrante confinante dell’Est. E a tutti va bene così.

Il terzo punto, invece, per assicurarsi i voti della compagine verde sia pure piuttosto ammaccata da un risultato elettorale disastroso, richiedeva qualche rassicurazione in più e qualche promessa sulle politiche di transizione ecologica che, in ogni modo, garantisce la Presidente, resteranno «pragmatiche». Val la pena di aprire una piccola parentesi sull’attuale significato di questo aggettivo. Non si tratta del contrario di «ideologico» o di «campato in aria», bensì di un agire che corrisponde ai rapporti di forza esistenti e agli interessi dominanti.

I Verdi stessi, quelli tedeschi in primo luogo, ormai da un bel pezzo si autodefiniscono «pragmatici» a presidio della loro vocazione governativa. Sembra, tuttavia, che l’elettorato verde, e soprattutto quello giovanile, non abbia affatto apprezzato questo genere di evoluzione. E ad ogni buon conto ci vuole del coraggio a fidarsi dell’ambiziosa aristocratica voltagabbana e una discreta faccia tosta nel vantarsi di avere sbarrato la strada all’influenza dell’estrema destra sulla politica europea.

Questa destra infatti, soprattutto quella italiana che ci aveva investito di più, avrebbe comportato eccessivi costi politici per il Ppe e la sua candidata se avesse in qualche modo contribuito alla rielezione della Presidente. Ursula von der Leyen si è così abilmente costruita il modo di farne a meno. Ma questo non significa, sebbene si tratti di una posizione scomoda, che la componente più «nazionaleuropeista» dell’estrema destra non possa rendersi assai utile in un gioco di sponda con il governo dell’Unione sugli aspetti più discriminatori o aggressivi della sua politica, avendo dovuto abbandonare nelle mani di Orbán e compagni la bandiera del nazionalismo antieuropeista.

Converrà dunque non equivocare sul significato politico di questo secondo mandato di Ursula von der Leyen alla presidenza della Commissione, il quale non consiste affatto in un rafforzamento dell’integrazione europea in termini sia pur vagamente progressisti. Testimonia piuttosto della totale subalternità di socialisti, liberali e verdi alla politica, fortemente caratterizzata a destra, del Partito popolare europeo e soprattutto agli interessi che questa più direttamente rappresenta. Una subalternità, impietosamente registrata dai risultati delle elezioni europee, che ha alterato il profilo, determinato e poi accelerato il declino di queste forze politiche.