Con le parole, e peggio, con i silenzi, del presidente americano Donald Trump si è reso evidente quello che da tempo era nell’aria: l’inquilino della Casa bianca si è detto «incerto» sulla consegna pacifica dei poteri a seguito dei risultati delle presidenziali che si svolgeranno il prossimo 3 novembre, tra soli 35 giorni, e questo sia perché «ci sarà continuità» – insomma le vince lui – sia perché dovrà «valutare», come più volte ha ribadito, accusando i democratici già di brogli e contestando il valore del voto a distanza.

Le ultime rassicurazioni della Casa bianca alimentano il caos, con la portavoce che dichiara: Il presidente accetterà i risultati di elezioni libere e giuste», confermando che è in forse da subito la legittimità del voto. Ora il Pentagono discute se, all’occasione, dimettere con la forza Trump, formalmente ancora in carica, se non accetterà l’eventuale sconfitta.

Siamo ad una crisi costituzionale epocale, dai connotati militari. Non riguarda solo gli Stati uniti ma l’Occidente tutto che ha visto nella democrazia liberale americana riflessi i propri valori e che ora deve fare i conti con il fatto che proprio quella democrazia liberale ha espresso una figura che di quei valori è nemico giurato. A questo punto non basta più la denuncia del suo essere populista, interprete della pancia americana – confermata dalla notizia del New York Times della sua sfacciata evasione fiscale -, riattivatore di «culture» razziste e suprematiste. Ci piaccia o no, lui rappresenta, d’autorità, gli Stati uniti d’America.

Un’America dove le vite delle persone, altra contraddizione non da poco per una democrazia liberale, non contano molto. Meno di zero se, a decine di milioni, sono povere o afroamericane; sottoposte ad una violenza di Stato garantita da leggi che non condannano l’uccisione a freddo di una donna innocente come Breonna Taylor; e che comunque salvaguardano le istituzioni della «legittima» repressione, come la polizia. Tanto che le persone sono costrette a gridare inascoltati per le strade «Black Lives Matter», cioè che le loro vite contano e a chiedere «l’abolizione della polizia».

ACCADE OGGI dove, nel luogo simbolo di Louisville, cova l’ennesima rivolta come in tanti ghetti sociali e razziali. E dove, anche su istigazione di Trump – che chiama alla Casa bianca una famiglia che impugna le armi contro le proteste – partecipano milizie di cittadini bianchi armati fino ai denti; ai quali si sta rispondendo, da un episodio all’altro, nello stesso modo. Si rende insomma più esplicito e pericoloso, di fronte ai «dubbi» di Trump sul valore delle presidenziali, quel clima da guerra civile strisciante che caratterizza la società americana che vanta da questo punto di vista statistiche belliche mediorientali: nel 2019 più di 40mila persone uccise da armi da fuoco. Il Paese – sia che alla presidenza ci sia stato un democratico o un repubblicano – resta socialmente armato con milioni di armi automatiche e d’assalto, di guerra, diffuse come Coca Cola. Se non fossimo saggi, verrebbe quasi voglia di dire: «Una guerra civile negli Usa? Perché no…». Del resto lì una guerra civile, un secolo e mezzo fa, c’è stata davvero, sanguinosa, con due milioni di morti, un conflitto per un diverso modello di sviluppo.

MA SAREBBE irresponsabile augurarselo. Perderebbero i subalterni e vincerebbe quel complesso militare-industriale il cui strapotere antidemocratico denunciava, come suo testamento politico, perfino il presidente Eisenhower. La democrazia si difende con la democrazia, e se quella liberale mostra i suoi limiti e ambiguità negli Usa come in Europa, e non bastano più pesi e contromisure istituzionali, allora urge una mobilitazione e una rivolta dal basso che renda effettive le libertà formali dichiarate a parole dall’Occidente: libertà, uguaglianza, fraternità.

CI SI CHIEDE allora che senso abbia avere il riflettore acceso, manco fosse il vero nemico della democrazia, sul solo Lukashenko, una figura squallida, feticcio marginale e residuo di un mondo, il socialismo reale, che non c’è più. I bielorussi lo contestano in massa, chiedono che se ne vada e nuove elezioni e fanno bene, sperando però che tutto non precipiti nel buco nero reazionario del modello ucraino. Ma indicarlo come «il responsabile» della fine della democrazia ci pare indicare la pagliuzza nell’occhio altrui e non vedere la trave dentro al nostro: lo fa solo chi, per riaccreditarsi in Occidente, è alla disperata ricerca di un altro, irripetibile, 1989. Quell’anno ormai è stato digerito. Ma dovremmo tutti tornare ad interrogarci su quella svolta, come chiedeva Rossana Rossanda. Perché ora nell’Est Europa, con gli Orbán e i Kaczynski, e in Slovacchia e Repubblica ceca, va in scena una democrazia illiberale. Dove cresce a dismisura il ruolo del partito personale populista, dove il partito riassume la centralità del parlamento, subordinando i processi della rappresentanza alla promulgazione di leggi liberticide, e dove cresce il leaderismo verticistico sorretto dal richiamo etnico alla patria magiara nel caso dell’Ungheria o alla revisione storica reazionaria appoggiata dalla Chiesa cattolica, come in Polonia. In un brodo di coltura che richiama i «valori» nazionalisti (spesso filo-nazisti) dei regimi precedenti alla seconda guerra mondiale – in Russia addirittura dello zarismo.

MA IL «DEMOCRATICO» Vaclav Havel, beniamino dell’Occidente, fu forse meno autoritario quando cancellò il lascito della Primavera di Praga, sciogliendo – certo senza violenza ma senza coinvolgere sprezzantemente un intero popolo – l’esistenza federale (su quello Dubcek aveva lavorato e non a caso su quel muore) di uno Stato unitario, la Cecoslovacchia? E la Cina non ha forse preso la scellerata «via del capitalismo» con il plauso dell’Occidente bisognoso di allargare il mercato? E Putin non nasce forse come statista grazie alla leadership di Eltsin? Che, dopo un provvidenziale e fallito golpe dell’apparato del Pcus, caccia il comunista-riformista Gorbaciov, poi prende a cannonate il nuovo parlamento russo. avvia le privatizzazioni che costruiranno la Russia degli oligarchi con cui Putin entrerà in conflitto per il potere; e alla fine Eltsin vince per il rotto della cuffia le elezioni solo per l’ingerenza (i soldi) degli Usa. Non tralasciando le responsabilità antidemocratiche europee nella compartecipazione, con i nazionalismi, alla distruzione della Jugoslavia.

ADESSO A EST non siamo al ritorno dei regimi del socialismo reale: non promettevano certo la democrazia liberale come l’89 e i leader di quella svolta che hanno guidato poi i Paesi dell’Est. A trenta anni dall’89 i Paesi dell’Est, bene assorbiti come vassalli nel mercato e invece male nel corpo malformato dell’Europa unitaria «reale», hanno aderito alle de-forme concrete che l’Occidente tutto ha praticato, in casa propria e nel mondo, ponendo spesso quei comportamenti occidentali come modello e come condizione d’integrazione dei Paesi dell’Est. Con le guerre e le spese militari, l’allargamento a est del blocco militare atlantico, con le diseguaglianze e il conflitto contro le classi subalterne, con la repressione violenta della protesta sociale, con la devastazione dei diritti, la cacciata dei migranti in fuga dalle nostre guerre, con la riduzione dei processi democratici a decisionismo e governance, con la subordinazione dello Stato al capitalismo finanziario come nella crisi, epocale quanto irrisolta, del 2008-2009. Tutti fatti «nostri», non retorica.

Il nodo della democrazia illiberale ci riguarda. È questa la società che l’Occidente sta costruendo. E che Trump- che invia Mike Pompeo in viaggio elettorale oggi in Italia e in Vaticano, eredita e gestisce come fosse un giocattolo. Esplosivo.