Sono passati tre mesi da quando Meloni disse che «la fine del fascismo pose le basi per il ritorno della democrazia». Era il 25 aprile e di più non riuscì a dire, lasciando aperta la possibilità che «la fine del fascismo» fosse arrivata a causa di un meteorite e non di una guerra anche di resistenza. Eppure molti rimasero stupiti dal fatto che la leader del partito erede della Repubblica di Salò – la fiamma nel simbolo è sempre quella del Msi, non si scappa – riconoscesse la Liberazione come lo snodo decisivo della vita civile italiana. Giusto ieri, però, la stessa Meloni si è prodotta in un discorso sulla strage di Bologna che incrocia abbondanti dosi di vittimismo a fastidiosi elementi di revisionismo storico. È dunque «grave» sostenere che le «radici di quell’attentato oggi figurano a pieno titolo nella destra di governo», come detto da Paolo Bolognesi. Un discorso che secondo la premier sarebbe persino «pericoloso per l’incolumità personale di chi, democraticamente eletto dai cittadini, cerca solo di fare del suo meglio per il bene di questa Nazione». I familiari delle vittime del 2 agosto 1980, insomma, in questo quadro starebbero fomentando odio contro i legittimi rappresentanti del popolo italiano.

Una posizione bizzarra, per non dire del tutto offensiva. Si potrebbe dire che il caldo gioca brutti scherzi, o che le sempre più vacillanti certezze della compagine di governo stiano generando nervosismo, e così almeno si spiegherebbe perché la destra faccia del diritto sostanziale un inderogabile punto d’onore quando le conviene e poi, quando non le conviene più, si aggrappi a barocchismi cavillosi come quello della strage che «le sentenze attribuiscono a esponenti di organizzazioni neofasciste».

O forse il problema è un altro: a osservare con un po’ di attenzione l’evolversi degli eventi possiamo accorgerci che i tentativi di revisionismo della destra alla guida del paese non siano tanto diretti al Ventennio e alla Resistenza, quanto all’arco di tempo che va dalla metà degli Anni 60 alla metà degli Anni 90, cioè dalla nascita della strategia della tensione allo sdoganamento dei postfascisti operato da Berlusconi, l’uomo che per la prima volta li ha portati al governo. In questo senso va letto l’eterno tentativo di creare una commissione d’inchiesta «sugli anni di piombo» evocata da tanti deputati e senatori di FdI, con la palese volontà di riscrivere la storia per via parlamentare (un’idea forse addirittura peggiore di farla scrivere dalle sentenze dei tribunali). Per il resto, il discorso sulle «radici» che Meloni respinge sdegnata trova la sua ragion d’essere nelle evidenze della cronaca. Basta guardarsi intorno per trovare un considerevole numero di esempi: prima che fosse costretto alle dimissioni perché beccato a dare troppa confidenza a un narcotrafficante, il portavoce del ministro Lollobrigida era Paolo Signorelli, nipote orgoglioso del Paolo Signorelli neofascista dichiarato i cui scritti hanno influenzato tanti lottatori armati neri.

Oppure si può ricordare la parabola di Marcello De Angelis, vecchia gloria di Terza Posizione, portavoce del governatore del Lazio Francesco Rocca fino al giorno in cui ha accusato «le istituzioni» di aver sempre mentito sulla strage di Bologna. Ma non è necessario cercare tra le seconde file. Poco più di un mese fa, un account di palazzo Chigi ha celebrato la lungimiranza di Giorgio Almirante mettendolo tra i padri della patria (poi hanno cancellato il post). Quando è storia, anche giudiziaria, che nel Msi di Almirante – un po’ dentro, un po’ fuori, un po’ dentro e fuori – sono cresciuti tanti protagonisti delle trame e delle stragi nere. Mentre non c’è solo la fiamma nel simbolo a testimoniare che da lì proviene anche la destra oggi al potere, basta scorrere i nomi dello stato maggiore di Fratelli d’Italia per ritrovarci i discendenti delle più note famiglie missine: Rauti, Cantalamessa, Augello, Rastrelli, La Russa. La matrice non potrebbe essere più chiara e Meloni non può offendersi: è la sua carta di identità.