La strage fascista, la strage di stato, la strage più sanguinosa e forse anche quella più inaspettata. Quarantaquattro anni dopo l’esplosione della bomba che il 2 agosto del 1980 sventrò la stazione di Bologna – e causò 85 morti e oltre 200 feriti – le definizioni possibili si sommano e il senso generale sembra sfuggire. Anche se manca un solo tassello al raggiungimento dell’agognata verità giudiziaria: il pronunciamento della Cassazione su Paolo Bellini, riconosciuto come uno degli esecutori materiali della strage e condannato all’ergastolo nell’aprile del 2022, con la Corte d’Appello di Bologna che ha confermato la sentenza nemmeno un mese fa, l’8 luglio.

Non ci sono ancora le motivazioni (verranno depositate entro la prima decade di ottobre), ma si dà per scontato che l’ultimo degli imputati della strage si rivolgerà agli Ermellini. Il suo avvocato, Antonio Capitella, l’ha detto chiaro e tondo poche ore dopo il pronunciamento dei giudici di secondo grado, gli ultimi ad aver sin qui valutato nel merito il caso: «Certo che faremo ricorso».

PER LA PROCURA di Bologna c’è una «prova granitica» contro di lui, ovvero un filmato girato in Super 8 dal turista tedesco Harald Polzer dopo l’esplosione, mentre si trovava a bordo di un treno. Lì, tra la folla che si accalca, si vedrebbe Paolo Bellini, riconosciuto (nel 2019) anche dalla sua ex moglie Maurizia Bonini. In dibattimento la partita sul punto si è giocata tutta sugli orari: il video è stato realizzato appena dopo le 10 e 25 (il momento della strage) secondo la procura.

Molto più tardi invece secondo la difesa, che trae questa sua convinzione dall’osservazione del frame in cui verrebbe inquadrato Bellini. Dietro la sua figura, infatti, c’è una signora con un orologio al polso le cui lancette forse segnano le 13 e 15, orario per il quale l’imputato ha un alibi che lo colloca lontano dalla stazione.

Impossibile chiedere chiarimenti al signor Polzer, deceduto, ma per il procuratore Nicola Proto, il problema non si pone: «Quelle immagini non potevano essere girate alle 13.15 perché il treno su cui si trovava Polzer non era più sul posto alle 13.15 e lui non avrebbe mai potuto girare le riprese a quell’ora», ha detto all’udienza dello scorso 7 febbraio. La carrozza su cui si trovava il tedesco, in effetti, venne spostata «prima delle 11 e 20» per agevolare i soccorsi. C’è poi un’intercettazione ad avvalorare la testimonianza di Bonini: «Maurizia mi ha coperto per quarant’anni, adesso non mi copre più perché io non la copro più», ha mormorato Bellini tra sé e sé il 26 giugno del 2023, senza sapere che gli investigatori lo stavano ascoltando. Pochi giorni dopo l’uomo verrà arrestato proprio per minacce verso l’ex consorte e suo figlio.

LA FIGURA di Bellini è centrale nella ricostruzione giudiziaria della strage: ex esponente di Avanguardia Nazionale e collaboratore dei servizi segreti italiani, sarebbe dunque l’anello di congiunzione tra i Nar e i «vecchi» neofascisti, cioè le organizzazioni protagoniste della strategia della tensione in accordo con pezzi più o meno deviati dello stato. Non è un dettaglio da nulla: Valerio Fioravanti, Francesca Mambro, Gilberto Cavallini e Luigi Ciavardini – condannati in via definitiva come esecutori, pur dichiarandosi ancora oggi estranei ai fatti – hanno da sempre basato una consistente fetta della loro difesa su una questione di logica politica.

Bisogna fare un piccolo passo indietro per capirlo: l’omicidio del giudice Mario Amato, avvenuto a Roma il 23 giugno del 1980, fu rivendicato con un comunicato di «chiarimento» in cui i Nar si proclamavano distanti anni luce, anzi del tutto ostili, alla fascisteria precedente, accusata proprio di essersi compromessa con il nemico, sarebbe a dire gli apparati della Repubblica. Dunque non avrebbe avuto alcun senso prendere parte all’ennesimo piano stragista ordito come gli altri.

La presenza di Bellini dimostra invece il contrario, come del resto il contrario è dimostrato anche dalla comprovata vicinanza di Cavallini con i reduci veneti di Ordine Nuovo e dalla frequentazione di Mambro e Fioravanti con Ciccio Mangiameli, militante siciliano di Terza Posizione. I due, peraltro, erano stati ospiti a casa sua, a Palermo, nelle settimane immediatamente precedenti alla strage. E poi lo uccisero un mese dopo. I Nar dicono per una questione di soldi, in una sentenza del 16 maggio 1994 si sostiene invece che il movente dell’omicidio fosse la paura che Mangiameli sapesse troppo della strage e avesse tutte le intenzioni di parlare.

SULLO SFONDO restano i manovratori: la procura di Bologna è convinta, anche sulla base di appunti contabili ritrovati negli archivi, che i piduisti Licio Gelli e Umberto Ortolani, l’ex direttore dell’Ufficio affari riservati del ministero dell’Interno Federico Umberto D’Amato e il giornalista missino Mario Tedeschi siano da considerare a vario titolo organizzatori, mandanti e finanziatori per i fatti del 2 agosto. Sono tutti morti, però, quindi un processo su questo è ormai impossibile. Restano scolpiti nelle sentenze, ad ogni modo, i depistaggi. Cominciarono subito dopo l’esplosione della bomba e forse non sono mai finiti. I condannati in via definitiva sono tre spie, Pietro Musumeci, Giuseppe Belmonte e Francesco Pazienza. E con loro, di nuovo, pure Gelli.