Essa gente, letteralmente Quella Gente (Feltrinelli, pp. 142, euro 15), in portoghese-brasiliano può significare anche «certa gente» in senso moralista e dispregiativo: coloro che trasgrediscono il buon senso. La classe media brasiliana utilizza espressioni come questa per proteggere il bon ton di uno status da difendere a tutti costi. Come accade nel condominio di lusso dove Duarte, scrittore in crisi di creatività oltre che affettiva e esistenziale, vive sotto la continua minaccia dello sfratto. Certa gente è insolente, brutale, bugiarda, ipocrita, egoista, perfino crudele. Diversa dalla minha gente cantata da Chico stesso in A Banda.

Del resto, Quella Gente non può essere letto come esperimento letterario dello straordinario compositore che rende omaggio a «chi saluta il dolor cantando cose d’amor». Con Leite derramado, Budapeste, è tra i principali romanzi di uno scrittore a tutto tondo: Chico, figlio di Sergio Buarque de Hollanda, anch’egli scrittore, oltre che sociologo, storico, cronista di un Brasile che nel passaggio di un secolo ha lasciato alle spalle un intero millennio. Saudade di quel Brasile che si annunciava ma non si è mai realizzato si respira nella malinconica quotidianità di Duarte che vive di un libro di successo pubblicato qualche anno prima.

Chico Buarque

IL PROTAGONISTA cerca eternamente di portare a compimento il suo nuovo lavoro, i pensieri introspettivi emigrano da una parte all’altra della cidade maravilhosa conducendoci in una Rio de Janeiro oscura, inquieta, desolante, tutt’altro che meravigliosa. Dal pastore di una chiesa che, con il beneplacito delle famiglie, fa evirare i ragazzini per farli cantare in un coro, allo psichiatra che riempie l’ex moglie di Duarte di psicofarmaci per poterla manipolare, illudendola di alleviarne le sofferenze. Alla polizia militare che, con macchine da guerra su cui sono disegnati teschi di morte, dopo aver assassinato un ladruncolo, scatta festosa e orgogliosa selfie con i vicini di Duarte.

È molto reale la Rio da Janeiro raccontata, la stessa dove oggi, grazie alle «aperture» del presidente Bolsonaro, ci si sente in diritto di possedere un’arma da fuoco. E sarà proprio una di queste armi a trasformarsi in un «corpo» letale.

IN UNA CITTÀ che perde la memoria con una facilità disarmante, si è armati gli uni contro gli altri, perfino contro sé stessi. Duarte conta sulla compagnia del cane con cui passeggia volentieri, del figlio con cui comunica a stento, di un suo ammiratore – il bagnino della spiaggia dove ogni tanto si concede tuffi tra le onde crescenti – del suo editore, dell’avvocato. Conta sull’affetto dell’ex moglie, che vive nello stesso condominio in una mai appagata ricerca di felicità, dell’attuale compagna con cui cerca invano di compensare reciprocamente amori incompiuti, di qualche amica, prostitute o innamorate d’occasione – affetto dato o ricevuto per interesse o solitudine. Conta sulla compagnia e la vicinanza di «questa gente», ma vagabonda in un assordante desolazione tra i meandri di una vita che appare come ricerca di senso senza un vero coronamento. Quel condominio a Leblon, uno dei quartieri più in voga di Rio, è espressione di un mondo dove tutti hanno ragione e nell’incolmabile solitudine sono pronti a giudicare, se necessario condannare, chi disturba l’agio di non mettersi mai in discussione.

Tra camminate, tuffi in acqua, corse dietro al cane, dialoghi senza parole, ricordi sbiaditi, altri vivi, crudi nella memoria, Duarte gira nella ruota della vita. Gira, continua a girare e girerà, ma non si incontrerà.