Diranno che è una «modalità moderata» l’applicazione dell’articolo 155 della Costituzione spagnola scelta ieri dal premier spagnolo Rajoy per fermare la dichiarazione di indipendenza catalana: di fatto non c’è l’impossibile cancellazione dell’autonomia ma «solo» il commissariamento del govern e di Puigdemont; diranno che è soft perché tutto è rimandato al voto del Senato la prossima settimana e a nuove elezioni tra sei mesi. Siamo in realtà sull’orlo del precipizio, altro che soft.

La scelta di assumere di fatto i poteri della Generalitat catalana e delle forme del suo autogoverno è un vulnus che riguarda l’intera democrazia spagnola che si regge sul riconoscimento delle autonomie. Questo grida con ragione Podemos, purtroppo inascoltato

Una decisione che svela come l’unica via imboccata dal governo di Madrid sia quella della repressione e non del dialogo. Perché commissariare un governo di una autonomia garantita dalla stessa Costituzione, sospendere il processo democratico sovrano a «dopo» elezioni» eterodirette, apre una voragine di senso sulle istituzioni della Spagna. E che avrà comunque subito come risposta un acuirsi del clima già teso, dopo le violenze della polizia durante il voto referendario, gli arresti dei due Jordi, la messa sotto accusa dei Mossos – ora commissariati – con una esacerbazione delle istanze dell’indipendentismo. E che mette in chiaro l’origine delle responsabilità nella crisi.

Non solo quelle degli indipendentisti, spesso irresponsabili, che hanno premuto l’acceleratore sulla sovranità nazionale separata, ma anche quelle del centralismo statuale spagnolo e dei nodi sociali ed economici tutt’altro che risolti, come ha ricordato di recente perfino il Fondo monetario internazionale.

È la crisi del Patto della Moncloa del 1978, che ebbe il merito di inserire la Spagna in un nuovo processo democratico, facendola uscire dal buio nero della dittatura franchista, con un ruolo allora positivo della monarchia garante del ruolo dell’esercito (già golpista).

Ma dopo quasi 40 anni che resta di quella monarchia, ridotta a sedimento corrotto, nonostante il cambio da Juan Carlos a re Felipe, per gli scandali che l’hanno contraddistinta? Per una democrazia compiuta non è forse venuto il momento di decidere una statualità repubblicana liberamente decisa dai cittadini?

E non è forse chiaro che sia in crisi la leadership del Partito popolare, che ha conquistato due punti in più di Pil ma solo a costo di tanto lavoro precario (come in Italia); e che ora ben altro atteggiamento della compromissione fin qui manifestata dovrebbe venire dall’opposizione socialista del Psoe di Pedro Sanchéz che, sul baratro che si apre, dovrebbe chiedere elezioni anche a Madrid e invece, come Ciudadanos, sale sul carro del vincitore, promette aperture, si prepara magari ad entrare al governo?

E poi come dimenticare che dietro il conflitto con Barcellona c’è stata l’iniziativa scellerata del Partito popolare di Rajoy di far cancellare nel giugno 2010 dal Tribunale costituzionale – con un voto per il rotto della cuffia – lo statuto di Catalogna nonostante fosse stato approvato dai parlamenti sia di Barcellona che di Madrid? Il nodo fu la parte del preambolo che recitava «la Catalogna è una nazione».

Fu l’apertura del vaso di Pandora che ha radicalizzato l’indipendentismo – moltiplicato da quella decisione – in chiave «nazionalista», anche di fronte al fatto che nel 2008, con l’esplodere dell crisi economica mondiale, arrivarono processi di ulteriore centralizzazione di Madrid. Molte delle grandi banche, che in questi giorni grazie al provvedimento propizio del governo, hanno spostato la loro sede amministrativa dalla Catalogna, vennero salvate in questo periodo dal provvidenziale intervento centrale dei governi centrali. Oggi il potere finanziario – come in Grecia, come dovunque – rende l’omaggio, rompendo l’unità ambigua del fronte separatista catalano. Composto in parte da una borghesia concorrenziale, legata a filo doppio all’economia spagnola, e da un’ala social-radicale, la Cup e non solo, che a dire il vero ha pensato ad un «processo costituente» per una «Repubblica garante dei diritti sociali, femminista accogliente verso l’immigrazione, con al centro le persone e non il denaro», ma senza tenere conto dei rapporti di forza reali e di chi, in Catalogna, non vuole l’indipendenza. Non una «piccola patria» però ma una «destituente» del potere centralistico, sia spagnolo che dell’Unione europea «reale» ridotta ad equilibrio di due sole nazioni, Germania e Francia.

Già l’Unione europea, che fine ha fatto in questa crisi? Quell’Ue che, quando ha fatto comodo, ne ha riconosciute di piccole patrie, addirittura quelle proclamate su base etnica, come per l’ex Jugoslavia, e poi per la divisione tra Cechi e Slovacchi e per l’incredibile nazione del Kosovo? Avrebbe dovuto, senza dare il segno dell’ingerenza, diventare la sede del dialogo concreto e possibile, almeno dopo il disastro secessionista della Brexit. Invece alla fine si è schierata con il Pp di Rajoy forte di una leadership europea costituita proprio dai partiti popolari di centro-destra. Fino a battere le mani come nei giorni scorsi a re Felipe al premio Principe delle Asturie: questo ha fatto il presidente del Parlamento europeo Tajani, del resto di formazione monarchica.

Ora c’è il precipizio balcanico di un articolo 155 mai applicato finora, dirompente verso la Catalogna ma anche per gli equilibri e la pace della Spagna. E dell’Europa.