Raramente è dato assistere a momenti che definiscono la storia. I 45 minuti di lettura delle determinazioni della Corte internazionale dell’Aja sull’accusa di genocidio portata dal Sudafrica nei confronti di Israele lo sono.

Sotto gli occhi dell’umanità intera, in diretta, la Corte del mondo ha ridefinito, riaffermandolo, il senso del «mai più» da cui era nata. La sentenza ha spezzato per la prima volta il nesso fra l’unicità della Shoah e l’eccezionalismo di Israele, quale finora si era manifestato: come scudo contro l’imputabilità di tutte le violazioni legate all’occupazione dei territori palestinesi, e come immunità e impunità rispetto alle norme del Diritto internazionale. Edward Said aveva spesso parlato della difficoltà che abbiamo a riconoscere l’esistenza di «vittime delle Vittime» – per antonomasia. Raz Segal, docente di Studi sull’olocausto e il genocidio, aveva affermato che proprio questo nesso assicurava a Israele una sorta di «impunità nativa». Questo nesso è spezzato. Possiamo riconoscere l’unicità di quel genocidio, senza dover ammettere che lo stato ebraico di Israele non sia imputabile di crimini contro l’umanità, incluso quello di genocidio. Questo tabù è tolto.

Perché qualunque sia l’efficacia degli obblighi imposti oggi dalla Corte a Israele, restano due fatti che nessuno al mondo potrà più negare: che la Corte ha rigettato esplicitamente la richiesta israeliana di archiviazione dell’accusa di genocidio nei confronti dei palestinesi (e implicitamente rifiutato il Dipartimento di Stato americano che aveva dichiarato infondata l’accusa sudafricana). E che l’accusa è stata dichiarata non infondata, ovvero «plausibile». Cioè, Israele si trova in effetti a processo di fronte all’umanità per difendersi dall’accusa di genocidio, qualunque possa essere poi la sentenza definitiva.

Può stupire o no che Netanyahu abbia messo sullo stesso piano la Corte e Hamas, con la sua frase «nessuno ci fermerà, né l’Aja né l’asse del male». Che risponde a una lunga tradizione di pronunciamenti ostili a qualunque vincolo giuridico posto sulla sovranità israeliana: fu ad esempio già Ben Gurion ad affermare che i confini dello stato di Israele non sarebbe stato l’Onu a deciderli.

Questa volta però le cose sono molto diverse: non si tratta di eventi politici, come le risoluzioni del Consiglio di sicurezza dell’Onu o una raccomandazione dell’Assemblea generale. Per la prima volta gli obblighi cui il diritto internazionale assoggetta Israele sono vincolanti. Naturalmente non è la Corte che può renderli anche efficaci. Ma la Corte impegna tutti cioè tutti noi, popoli degli stati che ne riconoscono la giurisdizione, ad agire per renderli efficaci, oppure a disconoscere davanti al mondo i vincoli legali e morali che noi stessi ci siamo dati. Sopprimendo così di fatto la supremazia del diritto internazionale sull’arbitrio degli stati nazionali, e tornando ad accettare in pieno la selva geopolitica e la barbarie delle sue guerre. In questo senso, sì, «di questa sentenza ci si ricorderà per generazioni», come Netanyahu ha anche affermato. Non però perché sia «vergognosa», ma perché ha sancito la responsabilità che tutti noi avremo se lasceremo che gli obblighi siano disattesi.

Infine, si può sentire o no come dolorosa la spettacolare quasi-coincidenza temporale fra la sentenza e il Giorno della Memoria. Eppure non ha ragione di dolersi chi vede in questo accidente della storia la liberazione da un tabù che – come tutti i tabù – gettava un’ombra buia, arcaica, «politica» nel senso peggiore di identitaria, «o con noi o contro di noi», sulla purezza, universalità e sacralità della memoria dello sterminio dell’umanità tutta, che nel corpo degli ebrei fu compiuta. Memoria e monito per tutti, come le parole di Primo Levi, che tanto stranamente qualcuno ha voluto appropriare a una parte soltanto («cercatevi citazioni altrove»: Noemi Di Segni). Eccole: «Se comprendere è impossibile conoscere è necessario, perché ciò che è accaduto può ritornare, le coscienze possono nuovamente essere sedotte ed oscurate: anche le nostre».