Via Polese è una strada come tante al centro di Bologna, a due passi dalla stazione. I portici da un lato e dall’altro. I muri gialli, arancioni e panna. I tetti rossi. Al numero 22 c’è un portone senza scritte, né bandiere. Dietro, però, c’è la sede del Mit.

La sigla non sta per Ministero infrastrutture e trasporti, né per il più famoso Massachusetts institute of technology. Indica il Movimento identità trans, «una delle associazioni più importanti del movimento Lgbtq+ italiano e sicuramente la più antica». Così recita la presentazione. Ma le parole fanno spesso fatica a stare dietro alle cose.

«PIÙ CHE UNA NORMALE associazione siamo un ente che eroga welfare», precisa subito Roberta Parigiani. Classe 1990, avvocata civilista, è la portavoce politica dell’organizzazione. «Che succede con chi eroga welfare? Che spende tanto e guadagna poco. Soprattutto quando i servizi sono rivolti alla comunità trans, a persone migranti, sex worker o detenute», continua.

Per questo il Mit ha un problema: è in bolletta. Manca la liquidità. Il meccanismo funziona così: vince un progetto per svolgere delle attività; realizza le attività anticipando i soldi; chiede il rimborso dei soldi con una nota spese. Negli ultimi due-tre anni, però, l’ultimo passaggio si è complicato parecchio. Prima i tempi di pagamento oscillavano intorno ai 30 giorni, adesso si sono dilatati. Ma gli stipendi non possono attendere. Le bollette di luce e gas vanno in scadenza.

«CHIEDIAMO AIUTO alla nostra comunità per assicurarci un futuro – si legge nella raccolta fondi lanciata sulla piattaforma gofundme – Difendere il Mit significa non abbandonare il contesto sociale dove lavora da decenni: in consultorio, in strada e in carcere. Significa contribuire alla resistenza di un avamposto politico-culturale che contrasta le politiche fasciste, sessiste, classiste e razziste che infestano il paese».

L’obiettivo è costituire un fondo cassa per poter tamponare i ritardi dei crediti. Altrimenti c’è il rischio che le utenze siano staccate e i progetti debbano chiudere. Sarebbe un brutto colpo, per tante persone. Sono circa 2mila quelle che ogni anno si rivolgono al consultorio del Mit. Un esperimento unico nel suo genere. «Il mio percorso di affermazione di genere l’ho fatto all’ospedale Careggi di Firenze. Mi sono rapportata tutto il tempo con medici cisgender secondo le modalità tipiche del rapporto dottore-paziente – racconta Parigiani – Al Mit è tutto diverso: c’è un’esperienza umana in comune tra chi offre il servizio e chi ne usufruisce. Questo permette di capirsi, immedesimarsi. Qui non vengono pazienti o soggetti da curare, ma persone che hanno bisogni e desideri».

CON LE ATTIVISTE del Mit c’è anche il personale medico specializzato della Asl di Bologna. «Il consultorio nasce grazie al finanziamento della regione Emilia-Romagna. Abbiamo la parte psicologica ed endocrinologica. Per gli interventi chirurgici siamo in convenzione con l’ospedale Sant’Orsola. Ma il sostegno è a 360 gradi, ben oltre i soli aspetti medici e legali dell’affermazione di genere», spiega Daniela Anna Nadalin, psicologa e psicoterapeuta. «Lavoro qui dal 1994 – continua – Un tempo arrivavano persone cacciate di casa dalle famiglie. Adesso tante famiglie accompagnano i figli. Anche minorenni».

Mentre parliamo il campanello continua a suonare. La sala d’attesa si riempie. Le persone entrano ed escono, chiacchierano, si confrontano, passano da una stanza all’altra. I muri raccontano la storia dell’organizzazione. Ci sono i poster delle varie edizioni del Divergenti film festival. Quest’anno la numero dodici si svolgerà dal primo al tre dicembre, sempre nel capoluogo emiliano, con al centro il tema della detenzione.

TRA I MANIFESTI e le fotografie il volto più presente è quello di Marcella Di Folco, storica attivista e presidente del Mit dal 1988 al 2010, anno della scomparsa. Prima donna trans a ricoprire in Italia un ruolo istituzionale: nel 1995 è stata eletta consigliera comunale di Bologna con i Verdi. In una grande immagine è stretta a Sylvia Rivera, l’attivista che nel 1969 lanciò la prima bottiglia contro la polizia allo Stonewall Inn facendo esplodere la rivolta della comunità lgbt+ newyokese.

«Il Mit nacque ufficiosamente nel 1979 a Roma, Firenze, Milano e Torino e tre anni dopo si dotò di uno statuto formale. Le fondatrici erano donne trans che venivano dalla strada, quelle che ho definito “le pioniere”. Molte facevano riferimento al Partito Radicale. Poi c’ero io: l’unica con una militanza nei movimenti extraparlamentari. Facevo parte di autonomia operaia», racconta Porpora Marcasciano. Attivista, scrittrice – imperdibile il suo Antologaia – e ora anche attrice e consigliera comunale di Bologna con Coalizione civica, Marcasciano è una personalità poliedrica che attraversa le esperienze degli anni ’70, poi quelle dei centri sociali, fino ai movimenti transfemministi dei 2000 e a Non Una Di Meno.

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HA PRESIEDUTO IL MIT tra il 2010 e il 2016, mentre oggi l’incarico è rivestito da Mazen Masoud, rifugiato politico libico e attivista trans. «La battaglia iniziale del Mit fu per la legge 164 sul riconoscimento del cambio di sesso – continua Marcasciano – C’erano donne che dopo l’operazione avevano ancora il nome maschile sui documenti. Quella norma fu una grande conquista, per il 1982. Oggi invece mostra limiti enormi e andrebbe modificata».

La Trans Rights Index & Map è l’analisi più completa dei diritti delle persone trans in Europa e Asia centrale. Nell’edizione 2023 redatta da Transgender Europe, rete composta da 200 organizzazioni attive in 48 paesi, l’Italia soddisfa solo otto dei 30 indicatori che valutano la tutela legale delle persone trans. Fanno meglio tutti i paesi dell’Europa occidentale e del nord. L’Islanda, che non è parte dell’Ue, guida la classifica con 26 punti su 30. Fanalino di coda è la Romania a quota uno. Nel nostro paese sono rilevate misure positive solo nell’area dell’asilo politico e del riconoscimento legale, ma con appena metà degli obiettivi soddisfatti. Vuoto assoluto nelle quattro aree restanti: famiglia, salute, non discriminazione, discorsi d’odio.

ANCHE PER QUESTO realtà come il Mit, che portano avanti battaglie e attività su tanti livelli, sono estremamente importanti. Accanto al consultorio, infatti, da via Polese partono molti altri progetti. Come l’unità di strada mobile per la riduzione del danno nell’ambito del lavoro sessuale. Si chiama Via Luna e distribuisce preservativi, lubrificanti e informazioni per l’accesso ai servizi sociali e sanitari. Poi c’è Archivist*, primo (e unico) archivio trans che ha l’obiettivo di ricostruire un pezzo di storia cancellato dai libri. Testi, volantini, articoli sono stati recentemente indicizzati e prossimamente saranno disponibili per la consultazione del pubblico.

Ci sono poi i progetti in carcere, in particolare a Reggio Emilia dove esiste una sezione per persone trans al cui interno sono realizzati laboratori di serigrafia e colloqui settimanali per l’ascolto e il sostegno, legale ma non solo. «Quasi tutte le persone che incontriamo sono dentro per reati di sopravvivenza, espedienti legati a una forte condizione di marginalizzazione. Questo progetto per noi è molto importane: per tre anni lo abbiamo portato avanti senza finanziamenti», dice Anna D’Amaro, 33 anni, operatrice e parte del consiglio direttivo del Mit. Quest’anno, grazie alla vittoria di un bando, dietro le sbarre arriverà anche un pionieristico percorso di educazione alla sessualità.

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LO SPORTELLO MIGRANTI lgbtq+ è dedicato a Sarah Hegazi, attivista egiziana suicidatasi in Canada dopo le torture subite in un carcere del Cairo dove era stata rinchiusa per aver sventolato una bandiera arcobaleno a un concerto. Offre consulenza ai cittadini stranieri che chiedono asilo e formazione ad associazioni ed enti gestori delle strutture di accoglienza. «Per ogni tipo di servizio che eroghiamo ci dotiamo di operatrici alla pari. Significa che hanno un vissuto simile a quello delle persone per cui lavorano», aggiunge D’Amaro.

Star, invece, è il centro antidiscriminazione e antiviolenza. Offre strumenti per uscire dalle situazioni di maltrattamenti e vulnerabilità, ma anche per affermare un’autonomia lavorativa non semplice in un paese trans-escludente. A chiedere una mano ci sono molte persone migranti alla ricerca di un percorso di riqualificazione lavorativa dal sex work oppure cinquantenni e sessantenni che hanno fatto coming out molti anni prima, sono stati allontanati dalle famiglie, hanno vissuto per strada e ora si trovano senza risorse né tutele.

PER DARE LUCE e visibilità a quest’ultimo servizio è stata lanciata di recente la campagna comunicativa Starlight, insieme al progetto d’arte pubblica Cheap. «Si chiama transfobia. E non va assunta mai», si legge su un manifesto appeso per le strade di Bologna. Sullo sfondo viola, a caratteri cubitali gialli c’è scritto: «Trans». «Perché è ancora una parola tabù ed è importante portarla in giro», dicono al Mit.