Autore di due testi fondamentali a indagare gli aspetti economici dell’occupazione israeliana dei Territori Palestinesi, The privatization of Israeli security e The political economy of Israel’s occupation, il ricercatore israeliano Shir Hever è tra i massimi esperti del sistema militare di Tel Aviv. Attualmente è coordinatore della campagna per l’embargo militare di Israele del Bds (Boycott Disinvestment and Sactions).

Con lui abbiamo discusso dello stato dell’export israeliano a otto mesi dall’inizio dell’offensiva contro Gaza.

Secondo i nuovi dati pubblicati dal ministero della difesa, nel 2023 Israele ha venduto armi a paesi stranieri per un valore superiore ai tredici miliardi di dollari, terzo anno record consecutivo. Come è accaduto in passato, Israele etichetta queste armi come «testate sul campo di battaglia». Parliamo di armi usate in un genocidio plausibile, nelle parole della Corte internazionale di Giustizia?

I media israeliani stanno cercando di ingannare l’opinione pubblica dando un titolo fuorviante al rapporto come se, nonostante il crescente embargo militare e il divieto per le aziende di armi israeliane di partecipare alla più grande fiera di armi del mondo, l’Eurosatory di Parigi, le esportazioni di armi di Israele siano in aumento. Non è vero: i dati per il 2023 sono per lo più precedenti a ottobre e il picco è stato raggiunto grazie a un massiccio sistema di difesa aerea venduto alla Germania. Dopo l’inizio del genocidio, molti paesi hanno smesso di acquistare armi israeliane o hanno ridotto drasticamente gli acquisti. Tra questi Brasile, Cile, Colombia, Spagna e tutti gli Stati aderenti agli Accordi di Abramo tranne il Marocco.

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La metà di quei tredici miliardi è stata venduta a paesi asiatici, il 30% a paesi europei. In passato questa strategia è stata descritta come «diplomazia militare», costruire alleanze politiche attraverso i rapporti commerciali militari. Questo tipo di relazioni aiuterà Israele a superare le condanne per il modo in cui conduce l’offensiva contro Gaza?

Molti paesi, soprattutto quelli del sud del mondo, constatano che le armi israeliane, concepite come strumenti di oppressione, non sono riuscite a mantenere i palestinesi contenti e docili sotto un sistema di apartheid. L’idea della diplomazia militare è stata quella di stringere alleanze politiche con i regimi autoritari del mondo, ai quali Israele ha fornito strumenti di oppressione testati contro i palestinesi. L’isolamento diplomatico globale di Israele e le cause legali in corso contro il paese presso la Corte internazionale di giustizia e la Corte penale internazionale indicano però che la diplomazia militare non funziona più. Tranne gli Stati uniti e la Germania, nessuno Stato è disposto a rischiare la propria reputazione sostenendo apertamente il genocidio di Israele contro i palestinesi.

Tra questi strumenti militari, ci sono nuove tecnologie e strumenti di sorveglianza, utilizzati per il controllo sociale dei palestinesi. In un momento in cui l’economia israeliana è in crisi (soprattutto il settore hi-tech e quello delle start-up), può la tecnologia militare «salvare» l’economia?

Tra gli strumenti di sorveglianza, lo spyware merita un’attenzione particolare. Non è un’invenzione israeliana, ma Israele è il primo Stato a permettere alle aziende private di vendere uno strumento di spionaggio di livello militare a fini di profitto. Lo spyware è stato testato sulla società civile palestinese e come parte della campagna di Israele per intimidire la Corte penale. Ora è diventato una minaccia globale per i diritti umani. Israele ha anche utilizzato campagne di disinformazione, attraverso falsi avatar generati dall’intelligenza artificiale e rivolti a influencer, legislatori, ecc. L’obiettivo non è «salvare» l’economia vendendo strumenti di sorveglianza, ma utilizzarli in modo offensivo per promuovere la propaganda israeliana. Sta funzionando? Non credo. Un esempio è l’Unrwa. La priorità di Israele era quella di minare l’agenzia Onu per i rifugiati palestinesi per negare ai palestinesi le condizioni di vita di base, un atto di genocidio. Inizialmente ha avuto successo grazie alle tecnologie di disinformazione, ma dopo poche settimane gli Stati donatori e i media hanno iniziato a chiedere prove e la campagna è crollata.

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In un recente podcast per Electronic Intifada, ha parlato di collasso della società israeliana e della dottrina militare. A cosa stiamo assistendo?

Molti israeliani stanno riconoscendo che il progetto sionista è giunto alla fine, perché la prospettiva è diventata retrograda, non lungimirante. Non c’è un piano né c’è fiducia nella sostenibilità dello Stato di Israele. Molti israeliani se ne vanno, gli indicatori economici mostrano un rapido declino e le istituzioni pubbliche perdono il rispetto dell’opinione pubblica. Questa perdita di fiducia non riguarda solo l’esercito ma ogni istituzione pubblica, solo che con le forze armate sono più chiare le indicazioni di successo e di fallimento: quali sono gli obiettivi strategici dell’attacco a Gaza? Nessuno lo sa. Un esercito senza un piano può uccidere, ma non può vincere. Un’economia senza futuro non può attrarre investimenti e infatti stiamo assistendo a un’ondata combinata di disinvestimenti internazionali da Israele e di israeliani che ritirano i loro risparmi.