La partnership con la Intel è sempre stata strettissima. E le autorità israeliane spesso sottolineano quanto la collaborazione con l’azienda americana – il più grande datore di lavoro tecnologico in Israele – sia un’altra evidente dimostrazione dei livelli di vertice raggiunti dallo Stato ebraico nell’hi-tech. Così quando nei giorni scorsi i fornitori hanno ricevuto la comunicazione della risoluzione dei contratti relativi alla costruzione del nuovo stabilimento della Intel in Israele, un progetto annunciato appena qualche mese fa, la notizia ha fatto in pochi attimi il giro del mondo.

A dicembre l’Intel aveva comunicato che avrebbe investito 15 miliardi di dollari in più in un nuovo impianto di microprocessori a Kiryat Gat oltre ai dieci miliardi investiti a partire dal 2019. L’azienda avrebbe ricevuto una sovvenzione di 3,2 miliardi di dollari dallo Stato di Israele – la più alta mai concessa a una società privata – e in cambio avrebbe acquistato in Israele nel corso nei prossimi dieci anni prodotti e servizi per 60 miliardi di shekel (15 miliardi di dollari). Un affare gigantesco con ricadute significative per l’immagine di un paese che afferma in continuazione di essere all’avanguardia.

I MOTIVI della retromarcia del colosso statunitense restano vaghi. «La gestione di progetti su larga scala spesso richiede l’adattamento a programmi in evoluzione. Le nostre decisioni si basano sulle condizioni economiche, sugli sviluppi del mercato e sulla gestione responsabile del nostro capitale…Israele continua a essere uno dei nostri principali siti di produzione e di ricerca e sviluppo a livello globale, e noi rimaniamo impegnati nella regione», ha detto un portavoce del colosso americano provando a dissipare il sospetto che la decisione di sospendere il progetto sia stata presa sulla base di considerazioni di natura politica, cioè la guerra a Gaza e le critiche internazionali che Israele ha ricevuto e riceve in questi mesi.

È difficile valutare quanto siano credibili le spiegazioni del portavoce della Intel. Tuttavia, nel mondo economico israeliano il disinvestimento ha alimentato considerazioni che vengono fatte da tempo sui riflessi che l’offensiva a Gaza sta avendo sull’immagine del paese. Non pochi imprenditori, scriveva giorni fa la rivista Calcalist, affermano che Israele sta diventando uno «stato paria», odiato ed emarginato, con conseguenze dirette per l’hi-tech. Non solo il colosso Intel, anche aziende più piccole avrebbero riconsiderato investimenti e assunzioni di personale. Le stesse imprese israeliane fanno fatica ad assumere o a confermare i posti di lavoro a causa del richiamo da parte delle forze armate di decine di migliaia di cittadini, come soldati o riservisti.

«SONO il vicepresidente di una startup. Mi sono arruolato il 7 ottobre e da allora sono in riserva a intermittenza. L’azienda mi ha informato che la situazione non è più sopportabile e sta cercando qualcuno che possa operare al 100%, lo capisco e siamo arrivati alla conclusione comune che dovrei farmi da parte», ha scritto un cittadino israeliano su X. Questo tweet riflette ciò che accade sotto la superficie da mesi, correnti sotterranee che, affermano gli analisti, rappresentano una minaccia reale. Sempre più aziende locali preferiscono assumere lavoratori all’estero per sottrarsi ai costi causati dal richiamo dei dipendenti israeliani nell’esercito.

Micha Kaufman, amministratore delegato di Fiverr, una multinazionale israeliana di servizi freelance quotata a Wall Street, ha spiegato ai media locali che «Nelle grandi aziende c’è sempre stata una dispersione del personale tra diversi paesi, ma oggi si tende a essere più rigorosi sulla continuità in situazioni di massiccio reclutamento nelle forze armate o di instabilità regionale…siamo di fronte a un potenziale trasferimento del 20% dei posti di lavoro dall’industria israeliana a diverse parti del mondo. I risultati saranno un colpo fatale per l’hi-tech locale». Kaufman è uno dei firmatari della lettera sui rischi per l’alta tecnologia inviata il mese scorso al primo ministro, al ministro delle finanze e al ministro dell’economia, in cui si sottolineano le inevitabili perdite fiscali per lo Stato e l’emigrazione futura di migliaia di cittadini.

DOPO IL 7 OTTOBRE la mobilitazione in Israele è stata generale e radicale. Si prevedeva un’operazione militare di breve durata, ma l’offensiva a Gaza non ha una fine chiara in vista e ora la situazione sta peggiorando con l’escalation al confine con il Libano. Secondo un rapporto pubblicato dall’Autorità israeliana per l’innovazione, 28mila professionisti dell’alta tecnologia hanno prestato servizio nelle riserve.

A febbraio questo numero è sceso a 12mila, ma il prolungamento del richiamo vanifica gli effetti della riduzione. Secondo un’indagine svolta dall’associazione israeliana dell’alta tecnologia, varie società hanno spostato le operazioni all’estero a causa dell’instabilità in Israele. Altre lo faranno l’anno prossimo.