Di quale paese si parla? Della Cina? Della Russia? Di un paese in cima alla lista nera degli stati canaglia? Macché, è uno degli invitati di maggior peso al Summit della democrazia che inizia domani, per iniziativa della Casa bianca. Parliamo del Pakistan. Ma non è l’eccezione, il regime dell’ex campione di cricket Imran Khan. Al vertice online, tra i 110 invitati, ci saranno diversi encomiabili campioni dei diritti umani, come il filippino Duterte e il brasiliano Bolsonaro, tanto per citare i più noti.

Il Washington Post segnala la plateale contraddizione di un’iniziativa che, al di là dell’etichetta e delle intenzioni dichiarate, si nota più che altro per le inclusioni e per le esclusioni, non si capisce operate con quale criterio, se non quello dell’«interesse nazionale» statunitense e quello degli equilibri geopolitici. Come invitare l’India ed escludere il Pakistan?

Più facile fare i maestrini tagliando fuori la piccola Ungheria di Orbán ma includendo la perfino più deprecabile Polonia, che però è tassello essenziale, paese confinante con l’Ucraina, nella partita strategica in corso con la Russia. Gli inviti, osserva The Economist, «riflettono la politica americana più che i valori democratici». D’altra parte la leva dei diritti umani – anche nella declinazione attiva dell’esportazione della democrazia – è un classico della politica internazionale degli Stati Uniti, almeno  da Carter in poi, una leva selettiva per operare pressioni all’interno di un determinato paese, alimentarne i conflitti domestici, e per indurre all’allineamento i paesi alleati, in nome di nobili intenti. E per avere il sostegno dell’opinione pubblica americana. È il terreno principale scelto da Joe Biden – peraltro congeniale alla sua storia politica di democratico interventista – per esercitare pressione sulla Cina.

Il boicottaggio «diplomatico» dei giochi olimpici invernali è solo l’ultimo episodio di una serie di prese di posizione mirate a mettere i dirigenti di Pechino sul piano, non di interlocutori, ma di imputati costretti a difendersi.

Con Putin il meccanismo della colpa non ha funzionato. Non perché il capo del Cremlino sia esente da serie responsabilità politiche e morali, anche personali, sul terreno del rispetto dei diritti e della libertà politica e d’opinione, ma perché quell’approccio erode molto scarsamente il consenso largo di cui ancora gode e, anzi, in settori dell’opinione pubblica lo rafforza persino.

Così la pressione su Mosca ha preso la strada dell’escalation delle minacce di sanzioni e ritorsioni sul terreno molto più complicato e scivoloso della sfida muscolare. Con il risultato di distrarre l’attenzione del presidente dalla Cina che, nei suoi piani, avrebbe dovuto occupare il grosso della sua agenda internazionale, lasciando sullo sfondo anche i dossier storicamente più importanti per la diplomazia americana, come il Medio Oriente e, appunto, la stessa Russia. Con il retropensiero, in quest’ultimo caso, che sia un paese in declino, un assunto peraltro contestato da una rivista come Foreign Affairs che lo liquida come «mito del declino russo», spiegando perché invece «Mosca sia una potenza persistente».

Le due ore di colloquio a distanza di ieri, tra Joe Biden e Vladimir Putin, non sembrano aver cambiato la situazione di tensione tra Washington e Mosca sul tema principale, la vicenda ucraina, con la reiterazione da parte americana di una immediata risposta, in termini di un’escalation di dure misure, economiche e di altro tipo, in risposta a un’eventuale escalation militare russa intorno all’Ucraina.

Meno appariscente ma non meno sostanziosa invece la parte del colloquio dedicata alla Strategic Stability, al dialogo per la riduzione del rischio di una guerra nucleare e per il controllo degli arsenali atomici, un tema che conferma come, al di là di tutto e di ogni propaganda, l’America riconosce nella Russia, come all’epoca guerra fredda all’Urss, una capacità di superpotenza nucleare che nessun’altra nazione possiede e con la quale bisogna sempre fare i conti.

Rilevante nell’incontro anche il tema Iran, anche qui con l’implicita ammissione che sul terreno delle crisi regionali, l’America, l’Occidente non possono non coordinarsi con il Cremlino. Sullo sfondo il tema cruciale al centro della crisi ucraina e della conseguente catena di reazioni di Washington e Mosca, ed è l’allargamento della Nato a Est fino ai confini russi, con l’inclusione dell’Ucraina, una prospettiva evidentemente inaccettabile per il Cremlino, come ha ribadito ieri Vladimir Putin al suo omologo americano, sapendo che non è un gioco a due.

Perché la parte europea della Nato, già alle prese con una severa crisi energetica, non può allinearsi a chi ingaggia una rischiosa partita che mette a repentaglio i suoi interessi economici e strategici, non certo quelli statunitensi.