Gli All Blacks sono in finale. Per la seconda volta consecutiva. Ma non è stata una vittoria facile, la loro. Il punteggio che chiude la loro sfida al Twickenham con gli Springboks è di 20-18, ma quello con cui le squadre erano andate al riposo era di 7-12 per i sudafricani. E’ un successo di stretta misura, conquistato con i nervi più che con un gioco spettacolare, con l’astuzia più che con le invenzioni.

E’ stata una partita tattica. Ognuna delle due squadre ha dovuto a rinunciare a qualcosa di sé. La Nuova Zelanda non ha potuto giocare sui ritmi per essa ideali perché i bokke hanno fatto tutto il possibile per rallentare i palloni sui punti di incontro. E il Sudafrica non è riuscito a interpretare il suo consueto copione – ovale calciato alto e cariche per demolire le difese – perché i suoi avversari hanno saputo reggere il livello dello scontro fisico senza cedere terreno né lasciare varchi aperti.

La differenza nel punteggio è sottolineata dalle due mete degli All Blacks (Jerome Kaino al 6’ e Bauden Barrett al 52’) ma soprattutto dalla lucidità della squadra, dal drop goal inventato da Dan Carter al rientro in campo mentre la squadra era con un uomo in meno (giallo a Kaino). E infine dalla ferocia agonistica degli uomini in nero nei momenti decisivi del match, negli ultimi venti minuti, quando nulla poteva più essere concesso perché ogni errore poteva risultare fatale.

Per tutto il primo tempo gli Springboks avevano giocato meglio. Migliori nei punti di incontro, dove la Nuova Zelanda era troppo fallosa, più forti in mischia chiusa, più solidi e cinici. L’indisciplina degli All Blacks era costata 12 punti, tutti arrivati per i calci di punizione che Handre Pollard, ventunenne apertura dai nervi d’acciaio, aveva infilato tra i pali.

Tutto ciò che di bello e spettacolare potevano fare gli All Blacks era congelato e rinviato ad altra occasione.

Non era un match per virtuosismi, questo, ma una sfida all’ultimo sangue: “L’abbiamo imparato a nostre spese, e questa volta non volevamo sorprese”, ha poi commentato Richie McCaw. E così è andata.

Tale è stata l’attenzione al dettaglio, tale la solidità difensiva, che né il cartellino giallo a Kaino né quello a Habana hanno determinato scompensi o modificato gli equilibri. Entrambe le squadre hanno concluso i dieci minuti giocati con un uomo in più senza un solo punto di vantaggio da aggiungere al tabellino.

Quando a dieci minuti dalla fine della partita un penalty di Labie ha consentito agli Springboks di portarsi sotto, a soli due punti di distanza, si è capito che da lì in avanti sarebbe stata una questione di nervi, di capacità di non cedere alla fatica, alla qualità migliore dei ricambi dalla panchina. E’ qui che la Nuova Zelanda ha avuto la meglio.

Oggi alle 17 tocca a Australia e Argentina. La brutta partita disputata nei quarti contro la Scozia e vinta solo nel finale ha messo molti dubbi nella mente dei Wallabies, che fin qui avevano mostrato il miglior rugby del torneo.

Il loro regista, Bernard Foley, ha salvato, con un calcio di punizione a un minuto dalla fine, una qualificazione che lui stesso aveva messo in forse i con una pessima prestazione. Ma è stata tutta la squadra a giocare male. Il rientro in terza linea di David Pocock dovrebbe garantire maggior sicurezza nel recupero dei palloni nei punti di incontro, ma se gli australiani non ritrovano la loro verve il match di oggi si annuncia insidiosissimo e quanto mai aperto.

L’Argentina in questo momento ha le ali ai piedi. Gioca benissimo, recupera un giocatore fondamentale come il trequarti centro Marcelo Bosch, deve temere soltanto i propri black-out e l’indisciplina.

Non vi è in questo momento squadra più motivata ed esaltata dei Pumas.

La splendida vittoria contro l’Irlanda è stata il migliore dei doping possibili e tutto il movimento rugbistico argentino sente di avere compiuto un salto di qualità impensabile. Oggi tutto è possibile.