«Non vedo come sia possibile effettuare un decoupling completo dalla Cina. Non è realistico. Le nostre aziende continueranno a lavorare con le controparti cinesi». A dirlo, pochi giorni fa, non uno dei governi amici di Pechino ma Chen Chern-chyi, viceministro dell’Economia di Taiwan.

Sì, l’altra sponda dello Stretto nel mirino della Repubblica Popolare. Lo ha detto dopo aver sottolineato che Taipei «salvaguarderà gli interessi delle sue aziende di semiconduttori».

CHEN HA ESPLICITATO quello che andando oltre le dichiarazioni ufficiali era chiaro da tempo: Taipei non vuole tagliare il cordone tecnologico con Pechino.

Non solo per motivi commerciali, ma anche politici. In assenza di dialogo tra governi, i colossi tecnologici come la Tsmc (leader nel comparto di fabbricazione e assemblaggio con oltre il 50% dello share globale che ha appena aumentato del 48% i ricavi nel terzo trimestre su base annua) e Foxconn diventano ambasciatori diplomatici. Così come i microchip sono una leva nel rapporto con Pechino di cui Taipei non vorrebbe privarsi.

Ma Joe Biden non pare aver ascoltato le preoccupazioni del partner che ha ripetutamente garantito di difendere in caso di aggressione militare. Anzi, venerdì ha introdotto ampi controlli sulle esportazioni che complicheranno ulteriormente gli sforzi delle aziende cinesi per sviluppare tecnologie all’avanguardia nel campo dei semiconduttori e dell’intelligenza artificiale.

Di fatto, Biden ha ampliato lo spettro applicativo della “fatwa” emessa nel 2020 da Donald Trump sul tech cinese e che allora aveva come obiettivo soprattutto Huawei.

Le restrizioni impediranno alle aziende Usa di esportare in Cina strumenti critici per la produzione di chip: interessati gruppi come Smic, Ymtc e Cxmt. Le nuove disposizioni colpiscono anche i singoli cittadini americani che forniscono sostegno diretto o indiretto alle aziende cinesi.

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Un giro di vite significativo, visto che finora anche le aziende Usa avevano approfittato di tutti gli spazi a disposizione per continuare a collaborare e generare ricavi su un settore nel quale Pechino investe cifre altissime.

Un “regalo” non gradito per Xi Jinping alla vigilia del XX Congresso del Partito comunista. Anche perché è la conferma che Washington ha nel mirino non solo le applicazioni militari, ma lo sviluppo tecnologico cinese tout court.

SARÀ IMPEDITO alle aziende di qualsiasi nazionalità di fornire a entità cinesi hardware o software con componentistica americana. In un comparto sfaccettato e multicentrico come quello dei semiconduttori, si tratta di una misura che colpisce praticamente tutti. A partire dai colossi taiwanesi e sudcoreani, coinvolti insieme alle aziende giapponesi nella Chip 4 a guida Usa.

Seul ha peraltro accolto come un “tradimento” l’Inflation Reduction Act, che contiene elementi svantaggiosi per le sue auto elettriche. Seul ha però bisogno degli Usa, anche e soprattutto sul fronte della difesa.

I ripetuti lanci di missili e il possibile nuovo test nucleare di Pyongyang hanno peraltro velocizzato il disgelo tra Corea del Sud e Giappone. Yoon Suk-yeol e Fumio Kishida si sono parlati di nuovo due giorni fa e hanno concordato una «svolta» sui rapporti bilaterali dopo anni di tensioni sui risarcimenti per le donne sfruttate come schiave sessuali dai soldati dell’Impero giapponese durante la seconda guerra mondiale.

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Pechino osserva con fastidio le esercitazioni trilaterali Usa-Giappone-Corea del sud e teme che quest’ultima, tradizionalmente misurata e dialogante con la Cina, possa “giapponesizzare” la sua politica estera e allinearsi sempre più al rivale americano.

Gli Usa, intanto, serrano le fila e soffiano sul disaccoppiamento.