Afrin è «un luogo idilliaco», dicono i suoi abitanti, oggi sfollati e dispersi nel resto della Siria del nord e dell’est: uliveti, frutteti, sorgenti d’acqua, campi coltivati. Dalla primavera del 2018 è un luogo disperato: dall’occupazione turca del cantone curdo all’estremo ovest della Siria, realizzata attraverso milizie islamiste raccolte sotto l’Sna (il Syrian National Army, ex Esercito libero siriano, galassia delle opposizioni islamiste a Damasco, un totale di 50mila uomini), la quotidianità dei pochi che sono rimasti è fatta di rapimenti a scopo di riscatto (346 nei primi sei messi dell’anno), torture, arresti, confische di terre, obbligo a pagare affitti sulla propria casa, distruzione di ulivi (8.500 sradicati da gennaio a giugno 2022).

Non c’è nemmeno più l’ombra del sistema di confederalismo democratico messo in piedi dal 2012 da curdi, arabi, assiri, siriaci, circassi, ispirato alla teorizzazione del presidente del Pkk, Abdullah Ocalan.

NEGLI ULTIMI GIORNI la situazione è peggiorata: la faida interna alla galassia jihadista che ancora oggi controlla e amministra la provincia occidentale siriana di Idlib si è allargata fino ad Afrin. Che ha subito una seconda occupazione: giovedì Hayat Tahrir al-Sham (Hts, l’ex Fronte al-Nusra, braccio siriano di al-Qaeda, uscito solo ufficialmente dalla rete con una sorta di re-branding) è entrato con mezzi blindati e forze ingenti ad Afrin e si sta spingendo ancora più a nord e a est, verso al-Bab e Azaz.

Gli scontri interni, che covavano sotto la cenere, sono esplosi dopo l’uccisione, il 9 ottobre, di un attivista ad al-Bab, Muhammad Abdul Latif, noto come Abo Ghanoum e apertamente critico sia del governo di Damasco che dell’amministrazione islamista della città. Se Al-Bab ha manifestato la propria rabbia dopo l’omicidio, Hayat Tahrir al-Sham ne ha approfittato per lanciare l’offensiva contro i rivali.

Forze avversarie fino a un certo punto: tutte, da Hts alle svariate milizie che compongono l’Sna, godono della protezione e il sostegno materiale della Turchia che, non a caso, si sta tenendo fuori dalla faida in corso.

DA ANNI GARANTE del veto su un allargamento di Hts verso la zona dell’Eufrate, ora Ankara tace facendo supporre che l’eventuale cambio di paradigma potrebbe non dispiacerle: Hts potrebbe essere utile all’offensiva (prospettata da Erdogan in estate e poi apparentemente congelata) contro le città di Manbij e Tel Rifaat, gestite dall’Amministrazione autonoma della Siria del nord e dell’est secondo il modello del confederalismo democratico. Come potrebbe non dispiacerle una faida interna che indebolisca gruppi divenuti troppo potenti e poco gestibili.

Hts – il più potente – è alleata di diverse fazioni jihadiste parte del Syrian National Army, dalla Divisione Hamzah a quella Sultan Suleiman Shah fino ad Ahrar al-Sham. È con loro che i qaedisti hanno lanciato l’offensiva su Afrin, prendendo di mira in particolare due gruppi, il Levant Front (formato da ex membri dell’Isis) e Jaysh al-Islam. A uccidere Abo Ghanoum sarebbero stati uomini della Hamzah Division, poi arrestati. Detenzioni che hanno scatenato la rappresaglia dei rivali.

Lungi dall’essere terminata, la guerra in Siria prosegue, insieme all’occupazione illegale di porzioni delle regioni settentrionali da parte della Turchia. Che continua a finanziare e sostenere gruppi apertamente jihadisti, con l’obiettivo dichiarato di mantenere in vita emirati islamici in miniatura.