Renzi, che con le operazioni dei 101 ha distrutto ciò che restava del vecchio Pd dopo la non-vittoria mutilata d’inizio legislatura, ora se la prende con la minoranza, cioè con «leader anche autorevoli che cannoneggiano contro il quartier generale come nemmeno le opposizioni più dure». Insomma, non bisogna più disturbare il manovratore, quello che prima era a lui concesso, per agitare le acque e approfittarne in vista della scalata al potere, ora è proibito e anzi il semplice mormorio viene interpretato come atto di sabotaggio.

Più ancora di Renzi, inflessibile pare Del Rio. Chi non condivide il sì alle riforme (della Costituzione, non delle infrastrutture) per il ministro è un niente di buono che dà un «colpo basso al Pd». Per questo, dopo aver ribadito che anche sulle materie costituzionali di libertà «esiste una linea di partito», egli ammonisce con piglio autoritario che «non sarebbero accettati comitati per il no dentro il Pd». Insomma, il referendum è una questione di ordine e disciplina, con demarcazioni nette: dentro o fuori.

Questa esibizione di potenza muscolare dei post-democristiani, insofferenti verso la libertà di espressione, rappresenta un pericoloso restringimento della dialettica delle opinioni, che è da considerare del tutto fisiologica in un referendum popolare. E per fortuna che Zanda e Guerini vorrebbero imporre una legge per la democrazia interna ai partiti, cioè regole coercitive che valgono solo per gli altri.

A forme di dissenso, anche organizzate, la tradizione post-comunista è abituata da tempo. Le riforme istituzionali di D’Alema furono bocciate grazie al voto determinante della minoranza occhettiana che si dissociò dal partito in Commissione bicamerale. Quella pattuglia disobbediente, che entrò in scena nel voto finale sul premierato forte, non fu rimossa d’imperio, come ha invece fatto Renzi con i dieci senatori della commissione affari costituzionali. In occasione del referendum Segni del 1993, cioè dell’atto di nascita della seconda repubblica, il Pds riuscì a convivere senza traumi e lo spettro di sanzioni disciplinari con una profonda frattura interna.

L’ex segretario del Pci Natta aderì ai comitati del no di Imperia temendo la nascita di «partiti della persona, di partiti di élite. Pannella ha addirittura costruito una lista con il proprio nome». E, in questa deriva annunciata, Segni si apprestava a fare altrettanto. Nella direzione del Pds del 13 marzo 1993 molti interventi (Ingrao, Tortorella, Cotturri, Boccia, e più sfumato Angius) si espressero per il no al referendum.
Tortorella precisò: «È stato detto da qualche giornale che il no entro il Pds implica volontà di rottura. Ciò è falso». E quindi il no al quesito vide la partecipazione aperta e organizzata della minoranza Pds, di donne per il no (Finocchiaro), di intellettuali d’area (Luciani, Barcellona, Martines, Ferrajoli, Allegretti, Calise). Anche il presidente dimissionario del Pds, Rodotà, partecipò alla battaglia referendaria e divenne il garante del no.

Che adesso si invochi la disciplina di partito su questioni istituzionali, e non di stretto indirizzo politico di maggioranza, è il segno di una regressione politica sia rispetto alla tradizione frazionista della Dc (proprio nel referendum del 1974 videro luce i cattolici del dissenso) sia rispetto alla vicenda della sinistra del post Pci. Nel referendum del 1993 tutti i partiti si presentarono alle urne in ordine sparso, con fratture visibili entro ciascuno di loro (dalla Rete ai verdi, alla Dc, al Psi).

Era il segno di una crisi emergenziale della repubblica dei partiti, ma anche la prova che nel referendum, come specifico istituto costituzionale, è il popolo che delibera, e quindi la rigida geografia politica deve subire delle normali alterazioni. Il richiamo del governo Renzi alla disciplina di partito è per questo una anomalia che incrementa i peggiori sospetti sulla volontà di dominio che accompagna l’Italicum e il senato dei dopolavoristi.

L’infatuazione del sempre a galla Franceschini per “l’uomo forte che decide”, e che i postcomunisti del Pd non si rassegnano a lasciare solo al comando anche quando rompe con la Cgil o con la carta del 1948, è una metafora disvelante, che sprigiona tutto il sinistro valore evocativo dell’inizio di un’emergenza costituzionale. Se costoro, con metafore più da nipotini di Scelba che di Dossetti, con il loro spirito di fazione e così insofferenti verso il dissenso e la libera critica (il no è raffigurato da un ministro della repubblica come «atto contro il paese»), vincono il plebiscito cosa altro pretenderanno dai soccombenti?