«Abbiamo un sogno: l’abolizione dell’ergastolo in Italia. Con l’ergastolo, la vita diventa una malattia, e gli ergastolani non vengono uccisi, peggio, sono lasciati morire. Molte persone pensano che la pena dell’ergastolo non esista, quindi è inutile toglierla. Ma se non esiste, perché c’è? Molti non sanno che con questa terribile condanna si raggiunge il confine dell’inesistenza perché la vita non vale più nulla e viene resa peggiore della morte».

Con queste parole si apre l’appello Una campagna digiuna per la vita, di cui il manifesto ha dato notizia martedì 5 dicembre nella rubrica delle lettere.

A me hanno ricordato la campagna «Mai dire mai», promossa da ergastolani nell’autunno 2007.

Consisteva in una lettera al Presidente della Repubblica, di poche righe. «Io – seguiva il nome- chiedo che la mia condanna sia tramutata in pena di morte, perché sono stanco di morire un poco ogni giorno».

Il presidente Napoletano rispose, rinviando al Parlamento di intervenire nel merito. Senza alcun seguito, non certo per la rapida fine della legislatura.

Oggi come allora sono gli ergastolani a porre con forza ed intelligenza la questione dell’ abolizione dell’ergastolo. Ed oggi, come allora, dobbiamo innanzitutto sconfiggere un fantasma: quello che l’ergastolo non esiste.

Che il «fine pena mai» è soltanto una condanna simbolica, ma di fatto, non la patisce nessuno. È il principale argomento contro l’abolizione dell’ergastolo.

Del tutto falso, serve ad alimentare l’allarme sociale: la richiesta di pene certe, sempre più alte e severe, necessarie per contrastare i crimini, per la sicurezza di tutti e tutte.

Insomma le leggi devono prescrivere più reati e più carcere, anche più ergastolo; i giudici devono emettere sentenze più severe; le condanne devono essere applicate senza sconti. Come scrisse Patrizio Gonnella anni fa, su queste pagine, si vorrebbe trasformare tutti i detenuti in ergastolani.

Oggi questo messaggio, di allarme è diventato martellante. Incapace di governare la crisi sociale, rimuovendone le cause, ricreando legami e convivenza e garantendo qualità della vita, la politica si aggrappa al nocciolo duro dello Stato minimo, quello del monopolio della forza. Riduce il patto tra governanti e governati allo scambio tra libertà e sicurezza. Si rinuncia alla prima, in porzione più o meno grande, in cambio della promessa di sicurezza.

Non importa se la paura e l’insicurezza invece di ridursi si dilatano. Quello che conta è orientarle verso la minaccia rappresentata dall’altro.

Da chi è «straniero», il e la migrante, o da chi è «estraneo», il diverso , l’ anormale. Da chi ha commesso un reato, e di conseguenza è portato al crimine.

Non si tratta, ovviamente, di negare responsabilità e gravità dei reati, per i quali è adottata la pena del’ergastolo. Ma di chiedersi se è la giusta pena.

Se vi è reato, per quanto efferato, che possa motivare la reclusione a vita. Quel “mai” che annulla il corso del tempo, lo congela. E con esso, l’esistenza di uno – più raramente di una – di noi. È una domanda che a molti e molte appare astratta, per non dire priva di senso.

Il primo ostacolo, per farne una domanda sociale, è l’isolamento del carcere.

Per lo più, infatti, si ignora cosa avviene dentro il carcere, come si vive la pena. È sufficiente sapere che il colpevole è recluso, che quella porta non si aprirà.

Semmai interessa la macabra contabilità dei costi e benefici. Quanto ci costano le carceri piene, e quanto spendiamo per ogni ergastolano. Quanti sono gli ergastolani e quanti di loro scontano per intero la pena.

Né interessa ai più che l’ergastolo contrasta con il fine della pena, scritto nella Costituzione italiana, di riabilitazione e reinserimento sociale del condannato/a.

Più in radice, la pena non dovrebbe mai essere lesiva della dignità della persona. Dovrebbe essere proporzionata, per quantità e qualità. Diversamente dal reato, che può essere disumano nella sua efferatezza, la pena non può essere né crudele né disumana.

In quanto privazione illimitata di libertà l’ergastolo è una pena più crudele della pena di morte. È una condizione di vita disumana. Si può vivere per sempre reclusi, senza essere privati di umanità?

Come si vive senza nessuna possibilità di ritrovare i rapporti, gli affetti,la comunicazione e gli scambi con gli altri esseri umani, non reclusi, e con il mondo?

Le parole degli ergastolani, raccolte nell’appello per la Campagna digiuna per la vita, descrivono cos’è , nella quotidianità, la pena senza fine.

Quanto sia privo di senso vivere, se non si può neppure immaginare un domani.

Di questo dovremmo parlare, per porre, in concreto, il problema dell’abolizione dell’ergastolo.

Dovremmo guardare alle singole vite deprivate per sempre di dignità umana. Se anche fossero poche, pochissime, sarebbe comunque un costo troppo alto.

Se anche una sola vita patisce una pena disumana, questo è in contrasto ad ogni principio di giustizia e deve interessarci. Perché è colpito un bene indivisibile qual è la libertà personale.

Dovremmo parlare all’amore per la libertà che è in ogni essere umano. Trovare il modo di parlare dell’ergastolo non con il linguaggio del diritto ma con quello della vita. Perché di vite concrete, di persone incarnate si tratta.