Sono le 17:39 di ieri quando sul ring olimpico dell’Arena Paris Nord salgono la pugile algerina venticinquenne Imane Khelif e la sua avversaria, la ventitreenne ungherese Luca Anna Hámori. Si sfidano nei quarti di finale della categoria pesi welter femminili e non si sono mai affrontate prima d’ora. La vincitrice avrà la certezza di salire sul podio. Khelif indossa pantaloncini, guanti e caschetto rossi, Hámori veste di blu. Tutti e tre i round sono intensi e combattuti ad armi pari, ma la pugile algerina pare più incisiva e i cinque giudici le assegnano la vittoria all’unanimità. La sua avversaria accetta il verdetto.

A match concluso da pochi minuti, arriva il commento a caldo di Viktor Orbán sui social. Per la prima volta in queste Olimpiadi il premier ungherese non si congratula con atleti magiari per avere vinto una medaglia. Pubblica, invece, la foto di un dritto sferrato da Hámori a Khelif con il titolo «Brava, Luca!». Assai più sibillina è la frase usata per commentare il post. Fa riferimento a un episodio ben preciso della storia ungherese, l’assedio del castello di Eger da parte dell’Impero Ottomano nel 1552. Alcune donne facevano parte della guarnigione magiara e anche grazie a loro i nemici vennero respinti. Si richiama quindi allo scontro impari e di civiltà fra donne ungheresi e uomini musulmani, facendo del post un duplice attacco alla pugile algerina, sia sul piano sessuale che religioso.

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Quanto a Hámori, aveva assicurato di non seguire le polemiche mediatiche e politiche sulla sua avversaria, ma di essere concentrata soltanto sulla sfida. Eppure nei giorni precedenti al match la pugile ha pubblicato sui propri profili social decine di post per screditare Khelif, alla quale si è sempre riferita usando pronomi maschili. Un estratto di un post di Hámori su Facebook alla vigilia dell’incontro recita: «Non posso essere intimorita! Che si tratti di un maschio o di una femmina, voglio vincere comunque. A mio modesto parere, non penso sia giusta la partecipazione di questo avversario alla competizione, ma non posso non affrontarlo o cambiarlo».

Su TikTok, invece, Hámori ha rilanciato l’immagine di una ragazza e di una creatura antropomorfa deforme che la sovrasta sul ring olimpico, pronte a incrociare i guantoni. Un rimando al cartone disneyano La bella e la bestia per identificarsi in una paladina opposta a un mostro: Imane Khelif. In una storia su Instagram ha definito la propria avversaria «korcs», insulto traducibile in «bastardo» o «abominio» e che in Ungheria rimanda all’eugenetica nazista. Infine Hámori ha annunciato: «Devo combattere contro un uomo.

È stato dimostrato che Imane Khelif è un uomo». Una bufala rilanciata sul web e che cita la squalifica retroattiva ai Mondiali femminili 2023 organizzati dell’Associazione internazionale boxe amatori (Aiba) comminata a Khelif e alla taiwanese Lin Yu-ting. Secondo il russo Umar Kremlev, presidente dell’Aiba, entrambe le pugili avrebbero evidenziato la presenza di cromosomi maschili XY in test genetici. Peccato che l’Aiba non abbia mai pubblicato i risultati di questi test.

In Ungheria le accuse di Hámori a Khelif non sono state condannate dal governo – e non c’è da sorprendersene viste le campagne antigender di Orbán – né dalla Associazione pugilistica nazionale (MÖS). Venerdì quest’ultima aveva addirittura presentato un reclamo al Cio ungherese contro la partecipazione di Khelif ai Giochi. Anche sulla stampa del Paese, quasi interamente controllata dal governo, si sono moltiplicati gli attacchi. Fra di essi, quello dell’immunologo András Falus, intervistato dal portale Infostart, il quale definisce «doping biologico» i livelli di testosterone dell’algerina, mentre secondo il quotidiano Nemzeti Sport, Imane Khelif è «biologicamente un uomo».

Intanto, ieri, anche la taiwanese Yu-ting ha conquistato l’accesso alle semifinali nella categoria pesi piuma femminile. La sua vittoria e quella di Khelif, ottenute in match equilibrati, dovrebbero affibbiare un Ko tecnico a chi le demonizza, ma rischiano di rinfocolare le retorica cavalcata da Giorgia Meloni e da Orbán. Interferenze politiche che gettano ombre oscurantiste sulle Olimpiadi.