Potrà sembrare scontata la critica alla crisi prefabbricata da Trump contro l’Iran, firmata sul New York Times da John Kerry, artefice diretto dell’accordo anti proliferazione ratificato tre anni fa con Teheran dopo mesi di difficili negoziati. Prevedibile ma fondamentalmente vera nella sua semplice verità: il ritiro dal trattato di stabilità è equivalso sin dall’inizio a una scelta di guerra.

Dopo l’abbandono proditorio e unilaterale dall’accordo, come sottolinea giustamente l’ex segretario di stato di Obama, si è imboccata una strada a senso unico che ha prevedibilmente portato fino agli eventi della scorsa settimana – all’uccisione di Soleimani e l’inutile tragedia – speculare a quella del 1988 (aereo civile abbattuto da missili americani sullo stretto di Hormuz) – di cui hanno fatto nuovamente le spese inermi passeggeri.

UN’ESCALATION FRUTTO della miscela di incompetenza e disinteresse che caratterizza l’attuale Casa bianca, esacerbazione assurdamente immotivata, al di la dei più transitori moventi politici interni. Si continua infatti a non discernere un disegno nelle eiaculazioni geopolitiche di Trump – in quelle recenti, come nel bombardamento estemporaneo della base aerea siriana di Sharyat nel 2017 – anche quel gesto avulso e transitorio.

Il presidente ufficialmente isolazionista, fisiologicamente roboante e patologicamente narcisista appare del tutto disinteressato a strategie che oltrepassino il declamatorio proclama di superiorità fallica. Our missiles are big, «I nostri missili sono grandi» ha dichiarato con machismo da sceneggiato televisivo nel discorso alla nazione – ma mirato ai sostenitori diretti – fra gli applausi fragorosi della Fox e dei media conservatori già in piena mobilitazione.

NON OCCORRE FARSI ILLUSIONI sul pacifismo della precedente amministrazione, per riconoscere che il JCPOA era stato uno dei pochi dati di affettiva rottura con una politica mediorientale monocorde dal dopoguerra. Vero, su Obama ricade anche la responsabilità di aver appaltato una guerra strisciante, a base di attacchi telecomandati, a forze speciali e Cia. Ma l’accordo con Teheran sul nucleare, frutto di uno sforzo diplomatico prolungato e multilaterale, è stato oggettivamente un iniziativa creativa, capace di incrinare l’asse Washington-Gerusalemme-Riad (e non a caso era valso a Obama l’ostilità imperitura di Netanyahu e dei Saud.) La pace separata col polo sciita era il primo dato innovativo di una dottrina petrolifera e ciecamente pro israeliana calcificata da decenni.

Trump, platealmente colluso e indebitato con la dinastia saudita, si è premurato sin dalle prime mosse di ristabilire gli equilibri. Con l’ambasciata spostata a Gerusalemme e i dialoghi chiusi col «nemico», il discorso mediorientale in America è tornato sul terreno del tifo da comizio.

E SCONCERTA LA RAPIDITÀ con cui la nazione è tornata allo status quo ante – con cui la memoria storica è stata orwellianamente ricalibrata sulla narrazione degli ostaggi del ’79 (raschiato ogni riferimento contestuale – da Mossadegh a Iran-Contra). Con la memoria azzerata la “crisi” è stata riportata ai minimi termini facilmente digeribili dalla base da preparare alle elezioni.

Indietro tutta quindi per tornare alla retorica neocon, anzi a quella reaganiana predicata sulla guerra fredda e gli stati canaglia. I proclami ufficiali hanno ripreso toni vietnamiti, ma se mezzo secolo fa il sergente Calley aveva pagato per My Lai, il massacro che aveva indignato il paese, oggi il sadico cecchino dei Seals Edward Gallagher, condannato da corte marziale per il tiro a segno su bambine irachene, è stato graziato e invitato alla Casa bianca. La nazione di Trump si è riadagiata nel solco ben scavato di un maccartismo militarista che invoca gli interessi nazionali come insindacabile giustificazione.

Nell’amplificatore mediatico ogni analisi logica è sommersa dalle accuse della destra che grida all’alto tradimento. Anche peggio, una stampa mainstream tutt’ora impreparata (ed esautorata dai social), rischia di rimanere spettatrice come fu nei prodromi dell’invasione irachena, con giornalisti ridotti a moviolisti, pacati commentatori del galateo dell’assassinio mirato, improbabili esegeti di un demagogo pericolosamente psicolabile che ancora non ha trovato efficaci limiti costituzionali ai propri eccessi.

Si sono sprecate in questi giorni le analisi sulla convenienza strategica dell’assassinio di Solemaini. L’assunto è che questa capacità sia implicita prerogativa del nuovo egemonismo americano, predicato su una smisurato primato tecnologico. Alla guerra asimmetrica si accompagna in era trumpista uno scompenso morale – un abisso di responsabilità.

IN FIN DEI CONTI è forse principalmente questa idea che la nuova America autoritaria e nazional populista vuole sdoganare – una Trump doctrine se mai ne esistesse una: l’evoluzione del conflitto permanente in terrore permanente, garantito dalla kill list sempre aggiornabile dall’unica potenza con l’arma letale a portata di telecomando.