Nel corso degli anni Settanta si era affievolita negli Stati Uniti la forza d’urto di quei movimenti per i diritti civili e per la liberazione nera che erano stati l’innesco di tutte le mobilitazioni di massa nei vent’anni precedenti. E dal 1981 Reagan e la reazione neoliberista avevano fatto il resto. Ma per qualche anno ancora non si spense il fervore intellettuale che l’attivismo dei giovani – neri e bianchi, uomini e donne – aveva risvegliato. Sociologi e storici della politica, della società e della cultura, quarantenni entrati nelle università e nell’editoria, posero alla Storia alcune delle tante domande fondamentali sollevate nei lunghi anni Sessanta. La storia dell’America e del posto dell’America nel mondo cambiò faccia.

UNA NUOVA GENERAZIONE di ricercatori si era messa al lavoro, scrisse Herbert Gutman nel 1981, e «alla fine degli anni Settanta interi segmenti della storia americana erano cambiati».

Cedric Robinson, l’autore di Black Marxism, era più giovane di Gutman e dei suoi coetanei che avevano messo giù le fondamenta della nuova storia. Nato nel 1940, aveva la stessa età dei protagonisti del movimento nero – John Lewis, Stokely Carmichael, Huey Newton, H. Rap Brown, Angela Davis – e dei bianchi che, come lui, avevano tratto dalla militanza l’impulso alla ricerca: Todd Gitlin, Paul Buhle, Tom Hayden, Barbara Ehrenreich, Sara Evans, Meredith Tax…

È su questo terreno che è cresciuto Black Marxism. Genealogia della tradizione radicale nera (Alegre, pp. 795, euro 35), pubblicato nel 1983 dalla londinese, Zed Press, e ripubblicato nel 2000 e nel 2020 dalla University of North Carolina Press. L’edizione italiana, tarda ma benvenuta, è arricchita dalle utilissime prefazione e postfazione di Miguel Mellino.

Il libro si apre con un’impegnativa dichiarazione d’intenti dell’autore: «mappare i contorni storici e intellettuali dell’incontro tra il marxismo e il radicalismo nero, due programmi per il cambiamento rivoluzionario». Ma non si pensi a un regesto dei neri che sono stati marxisti, anche se l’ultima sua sezione è focalizzata su tre intellettuali neri marxisti del Novecento, gli storici e politici W.E.B. Du Bois e C.L.R. James e il romanziere Richard Wright. È invece un’amplissima rivisitazione – atipica ed eclettica, la definisce Mellino – di un percorso storico e storiografico plurisecolare che si snoda dall’affermarsi del capitalismo borghese in Europa alla sua espansione coloniale, alle schiavitù e alle forme di resistenza degli schiavi, all’emergere delle intellettualità nere, di cui gli autori appena citati sono rappresentativi.

Uno dei fili storici del percorso di Robinson è quello del rapporto squilibrato tra l’esistenza di una «tradizione radicale nera», imperniata sulla resistenza e sulle rivolte degli schiavi in tutte le Americhe, e un’elaborazione marxista che è cresciuta ignorandole, pur avendo i rapporti di produzione al centro dell’attenzione. Nella sua lettura della rivoluzione industriale, Marx aveva sottolineato il rapporto indissolubile tra la schiavitù velata del salario in Europa e la schiavitù senza aggettivi nelle colonie. Ma fino al Novecento i marxisti non sono andati oltre quel primo passo. Come se l’analisi dello scontro tra lavoratori e padroni si esaurisse nella fabbrica. E come se la resistenza dei lavoratori in schiavitù fosse trascurabile, essendo essi senza partito e sindacato, senza «classe».

NEGLI STATI UNITI ci sarebbero volute centinaia di autobiografie ottocentesche e, nel Novecento, migliaia di testimonianze di ex schiavi perché le soggettività degli schiavi, le loro culture, le loro comunità e la loro determinazione ad abbattere il sistema schiavistico (fino a trasformare la guerra civile in una guerra per distruggere la schiavitù) emergessero in tutta la loro pregnanza razziale. È stato W.E.B. Du Bois, alla cui biografia intellettuale e politica Robinson dedica un centinaio di pagine, a dare la giusta centralità al protagonismo nero. Altrettanto spazio è dedicato all’evoluzione di C.L.R. James da piccolo borghese antillano a storico e militante politico. Ed è significativo che le due opere storiche maggiori di quei due giganti uscissero quasi contemporaneamente: nel 1935, Black Reconstruction di Du Bois sul dopo-Guerra civile; nel 1938 Black Jacobins di James sulla rivolta dei neri di Haiti di fine Settecento.

Se è vero, come dice Robinson che «lo schiavismo, storicamente, è stato un caposaldo del capitalismo», grazie a loro, razza e classe sono ora inscindibili nell’analisi marxista.
Il punto è decisivo. La strada per arrivarci, per arrivare a definire la «tradizione radicale nera» e a quello che viene definito «capitalismo razziale» è stata tracciata nei primi due terzi del libro. Non si può che sintetizzare. Sono le pagine insieme più ambiziose e più tentative, in cui l’autore spazia sul terreno dell’analisi e si muove con una certa libertà disciplinare e narrativa attraverso epoche e continenti. Non tutto è ugualmente convincente, quasi tutto è interessante e spesso avvincente.

Prima di Du Bois e James e prima dei movimenti di liberazione in Africa nel dopoguerra, dice Robinson, l’idea che potesse esistere «una connessione ideologica» tra i ribelli neri delle due sponde dell’Atlantico non era niente più di «un’ipotesi remota».
Dopo, diventava impossibile negare che i radicalismi neri fossero e fossero stati una risposta – «africana», sottolinea – all’oppressione intrinseca a «fattori imprescindibili per lo sviluppo dell’Europa moderna» e alle forme di «sfruttamento dell’uomo» intessute nella «vita sociale sin dalle origini della sua civiltà». Qui Robinson forza la mano. È uno schematismo eccessivo affermare che «non è in quanto schiavi, dopo tutto, ma in quanto africani, che le donne e gli uomini hanno reagito alla schiavizzazione».

PERCHÉ SEPARARE la condizione materiale dell’essere schiavo, diversa ma comune in tutte le Americhe, dai retaggi altrettanto comuni e diversi delle origini africane? Non si rischia, nel farlo, di spogliare la storia dello stesso capitalismo della sua natura sociale e di trasformare il radicalismo nero in un fatto genetico? E su un altro piano, non perderebbe di senso quel tentativo che l’autore riconosce a James di «riconciliazione teorica delle tradizioni nere e occidentali»?

Robinson ha di certo assimilato i contributi di ricerca che negli anni precedenti avevano portato i neri al centro del dibattito culturale, e forse rimane sintonizzato sul protagonismo-separatismo messo in campo dal radicalismo politico nero di quegli anni. Entrambi finalizzati a cancellare le secolari esclusioni dalla storia. Ma non solo.
Viene da qui il passo più ambizioso sul piano teorico: l’inserimento della componente razziale nel discorso centrale sulle origini e lo sviluppo del capitalismo. Nelle sue parole: «Lo sviluppo, l’organizzazione e l’espansione della società capitalistica, così come l’ideologia sociale, hanno perseguito direzioni essenzialmente razziali. In quanto forza materiale, pertanto, era nell’ordine delle cose che il razzismo finisse per permeare anche le strutture sociali emerse con il capitalismo. Per riferirmi a questo sviluppo e alla sua successiva strutturazione in quanto agire sociale, ho usato il termine ‘capitalismo razziale’».

Robinson non fu il primo né l’ultimo a usare quell’espressione ma, come scrive Mellino, fu forse l’unico a pensarlo come «il nucleo di una nuova teoria generale delle stesso modo di produzione capitalistico».