Il momento è delicatissimo per la crisi ucraina. Arrivano segnali concreti di de-escalation, ma ne restano in campo altri come ordigni innescati. Nell’ordine: il discorso di Joe Biden ieri sera nel quale il presidente americano ha detto che «il ritiro russo è da verificare», tuttavia ha insistito sul fatto che «gli Stati Uniti sono ancora pronti ad impegnarsi nella diplomazia con alleati, partner e insieme alla Russia», ma anche «a rispondere fermamente in caso di invasione dell’Ucraina da parte di Mosca», chiarendo al «popolo americano» che l’apertura c’è: «In fine settimana ho parlato di nuovo con Putin per riaffermare che siamo pronti per la diplomazia ad alto livello e abbiamo concordato sulla necessità’ di continuare sulla via della diplomazia», naturalmente «senza rinunciare a difendere la sovranità e l’integrità territoriale dell’Ucraina».

Poi il cambio di paradigma del giorno prima: l’annuncio del cancelliere tedesco Scholz alla conferenza con il presidente ucraino Zelensky: «L’adesione dell’Ucraina alla Nato non è in agenda», con la risposta asimmetrica di un inizio di ritiro di alcune truppe russe dal confine ucraino, con tanto di notizia Tass e discorso di Lavrov.

Scholz certo ha parlato con particolare attenzione alla centralità della strategica energia in questa fase, ai suoi insopportabili costi, che fanno della minaccia delle sanzioni ormai un’arma spuntata.

E onsieme a doppio taglio per chi le impone. Comunque sia gli interlocutori occidentali cominciano a rispondere alle richieste di «sicurezza» contenute nel famoso documento presentato da Putin e Lavrov, anche se non è ancora quella trattativa generale, una Helsinki 2, che viene avanzata dalle nuove colombe americane, come l’ex ambasciatore di Obama a Mosca McFaul. Un avvicinamento diplomatico era stato evidente già nelle parole del presidente francese Macron: « Sarà difficile rimettere in discussione l’allargamento della Nato fin qui realizzato…”, aprendo uno spiraglio su quello problematico dell’Ucraina. Che resta problematico perché, se finora l’estensione dell’Alleanza atlantica a tutti i Paesi dell’ex Patto di Varsavia non ha suscitato reazioni proporzionali, quello di Ucraina e Georgia non possono essere accettate da Mosca perché vedrebbe i sistemi anti-missile degli Usa dentro casa.

Siamo ad una svolta, che dice che la trattativa è possibile. Tuttavia si nota che il presidente Usa Joe Biden – pieno di scheletri ucraini nell’armadio, dalla sua presenza su piazza Majdan nel 2014 ad arringare le folle, al suo intervento contro la Procura di Kiev per archiviare i procedimento nei confronti del figlio in affari con l’azienda dell’energia Burisma – , insiste ancora a denunciare sulla possibilità dell’invasione, contraddetto perfino più dal governo di Kiev – che accusa a l’operazione come «propaga«nda che crea panico» – che non da quello russo. Biden ha bisogno di questa crisi, in profonda difficoltà all’interno, ha bisogno di un nemico e della costruzione di un metaverso – un doppio virtuale – internazionale con la definizione di una realtà minacciosa che accerchierebbe i derelitti Stati uniti: difficile accerchiare militarmente, dopo una infinità di guerre Usa d’aggressione sparse per il mondo, le oltre 750 basi militari disseminate in più di 80 Paesi.

Ma, fuori dal metaverso ci sono le bombe innescate vere, oltre alla diffidenza di Biden. La prima è quella del rifiuto da parte della leadership di Kiev del rilancio degli accordi di Minsk che prevedono fra l’altro una ampia autonomia amministrativa alle regioni proclamate indipendenti del Donbass, che garantirebbe la loro internità all’Ucraina. Sotto tiro di una potente opposizione nazionalista di estrema destra, che è stata protagonista della rivolta di piazza Majdan nel 2014 – l’atto fondativo del nuovo Paese – se accettasse il rinnovo di quegli accordi farebbe la fine del «traditore» Poroshenko. E non è certo da sottovalutare il fatto che l’«adesione alla Ue e alla Nato» sta scritta nella nuova costituzione dell’Ucraina, come la riconquista della Crimea. E come risposta asimmetrica, foriera di scontro, ieri la Duma russa ha approvato l’ordine del giorno rivolto a Putin perché si riconosca l’indipendenza del Donbass. Ma Putin, per ora, ha detto no: «Bisogna passare agli accordi di Minsk».

Se davvero si avvia la de-escalation di questa crisi, resta da capire però tempi e modi. Essa appare infatti più che la raggiunta pace, un congelamento sul campo della guerra vera e propria. Pronto insomma a sciogliersi ala cambio di stagione. Già si aprono le gare su chi avrebbe vinto in questo braccio di ferro L’Europa potrà vantare di avere riscoperto la diplomazia, in realtà è solo corsa trafelata all’ultimo minuto, perché la Ue non ha una sua politica estera – pensate alla diversa dislocazione d’intenti, tra Macron che lavora alla mediazione, e la Polonia che, interprete dell’«invasione imminente» , già chiede finanziamenti per i profughi di un conflitto che se ci fosse sarebbe il prodromo della Terza guerra mondiale. L’Ue ha delegato la sua politica estera alla Nato che si vanterà di essere stata la soluzione del problema, quando è il problema.

Biden che dal suo metaverso ha annunciata a più riprese l’invasione – e ha spostato l’ambasciata a Leopoli, dopo avere distruttole la sede di Kiev come ha fatto a Kabul – potrà dire che averla evocata alla fine l’ha evitata. In realtà ha giocato, e gioca, con Putin, alla guerra sulla carta geografica dell’Europa. Il risiko è rimasto sul tavolo, a chi il nuovo lancio?

C’è una soluzione a tutto questo? C’è. Sta nella ripresa della lotta di classe nel mondo, che c’è sempre ma qualcuno deve pure farla propria. A partire dal Vecchio Continente. E dall’Ucraina, un paese ridotto alla miseria, che ha il Pil al 113esimo posto al mondo, sospeso tra oligarchi e neocapitalismo, iperfinanziato dall’Ue che così tieni in piedi uno dei sistemi più corrotti della Terra, dove la gente sopravvive con salari di fame, dove servizi e diritti sono azzerati, ma le persone, anche «grazie» a questa crisi, scendono in piazza per la «patria».