Ma da dove vengono i ricatti di Erdogan? Vale la pena chiederselo, vista la faccia tosta con cui rivendica il buon diritto di invadere il nord della Siria e fare terra bruciata dell’esperienza dei curdi del Rojava. Ieri è stato più esplicito del solito, rivolto ad una Turchia che, tutta, – tranne l’Hdp curda – plaude all’offensiva. Ha ammonito l’Ue che se la considera un’invasione, rimanderà in Europa i 3 milioni e 600mila profughi che gli abbiamo appaltato; ha attaccato chi lo critica, come l’ egiziano al Sisi definendolo «il killer della democrazia; e ai Saud ha ricordato le stragi in Yemen…Insomma: «Da che pupito». E certo è una bella accozzaglia di criminali. E alla Nato ha chiesto: «La Turchia è un membro alleato, c’è l’articolo 5. Come fate a non reagire mentre i terroristi ci attaccano?».

Più provocatorio di così. «Ennesima guerra», «La guerra di Erdogan», «Pugnalata alle spalle»… I titoli dei media si rincorrono; con il titolo “offensivo” dell’offensiva turca: «Fonte di pace». Il lessico delle guerre provocate dall’Occidente abbonda di parole come tute mimetiche. Non è infatti né l’ennesima guerra, né è del solo Erdogan la «pugnalata alle spalle» dei curdi. E l’invasione turca è solo sorgente di nuove guerre. Non è l’ennesima guerra perché Erdogan così facendo porta a termine la somma delle ambiguità che hanno caratterizzato l’impresa statunitense ed europea di destabilizzazione della Siria.

Rappresentata, come ha scritto sul manifesto Alberto Negri, dal tentativo di «guidare da dietro le «primavere arabe». A cominciare dal ruolo del segretario di Stato Hillary Clinton – entusiasta – e di Obama – reticente -, con la guerra Nato che ha abbattuto in Libia Gheddafi nell’ottobre 2011; per ritrovarsi solo un anno dopo ( l’11 settembre 2012) al rovescio disastroso dell’impresa, con l’uccisione a Bengasi dell’ambasciatore Usa Chris Stevens. «Abbiamo fatto in Libia una figura di m…» commentò lo stesso Obama. Ma sempre nel 2011 si apriva il portale della destabilizzazione della Siria, ben più decisiva strategicamente in Medio Oriente della pur imperdibile piattaforma petrolifera libica.

La passeggiata ad Hama dell’ambasciatore Usa Robert Ford – come ha raccontato lui stesso in una intervsita del 2017 a Newsweek – tra i ribelli siriani fu il via libera per l’ingresso dei foreign fighters jihadisti che stazionavano in Turchia, cui veniva delegata la loro gestione. Ruolo che Erdogan prese alla lettera con la collaborazione della Nato: li armava, li addestrava e con l’Isis stabilì profiqui affari anche petroliferi, come testimoniarono giornalisti coraggiosi di Cumhuryet, incarcerati o costretti all’esilio.

L’invenzione che fu lanciata, dentro la Coalizione degli Amici della Siria (dagli Usa a tutti i Paesi europei, Italia compresa e con i fondi dell’Arabia saudita) fu quella dell’«opposizione democratica», fallita in pochi mesi perché divorata dal radicalismo e dalla forza dell’Isis e delle molte diramazioni siriane di Al Qaeda. Così l’intera operazione fallì. In Siria la destabilizzazione riuscita in Libia non funzionava, il regime di Assad resisteva da tre anni e mezzo, tra macerie, massacri e 6 milioni di profughi. Se ne accorse Obama che a fine 2015, nell’incontro del «caminetto», nella Sala Ovala alla Casa bianca con Putin, aprì all’intervento russo, mentre sul campo si avviava anche l’intervento iraniano, con pasdaran e forze Hezbollah a sostegno del regime sciita di Damasco.

A combattere l’Isis – organico al regime saudita – non c’erano più sedicenti opposizioni armate democratiche, né l’Occidente ma, insieme a esercito siriano e russi, i pasdaran iraniani e gli Hezbollah – presi subito anche di mira dai bombardamenti aerei israeliani. E soprattutto le forze curde progressiste dell’Ypg che si richiamano a Ocalan e al Pkk turco, impegnate in piena guerra a costruire nel Rojava un’autonomia confederale, democratica e interetnica. Nella rincorsa al ruolo di Mosca, mentre in Siria ormai era preda di una divampante guerra per procura tra Stati, Washington prima con Obama poi con Trump ha contribuito a bombardare, anche coi droni, lo Stato islamico dall’alto; gli «scarponi a terra» di un centinaio di forze speciali Usa, finite a coabitare con i i curdi dell’Ypg, sono il residuo di questa ambigua storia.

Una ambiguità che Trump, sovranista e isolazionista, ha alla fine rotto con la decisione del «ritiro» che altro non è che l’autorizzazione all’alleato atlantico Erdogan – nel timore che finisse definitivamente nelle braccia di Putin – ad avere, dopo tante promesse occidentali, la sua fetta di torta siriana: la zona cuscinetto per il controllo «turcomanno» dell’area, dove cominciare a riversare il serbatoio di profughi che gli abbiamo delegato, previo pagamento di più di 6 miliardi di euro.

Così suona quantomeno complice la richiesta congiunta di Conte e del segretario della Nato Jens Stoltenberg, di «avere moderazione». Erdogan ha mano libera, è il nostro debito estero di guerre occidentali, può insanguinare ancora di più la Siria e fare terra bruciata dell’esperienza rivoluzionaria del Rojava; tanto più che la Turchia è il «baluardo sud» della Nato; e se un esercito Nato muove alla guerra a quanto pare gli alleati si limitano a chiedere, complici, «moderazione». Come finirà questa immane «pugnalata alla schiena» dei curdi che l’Occidente ha allestito con il killer assoldato che si chiama Erdogan, stavolta davvero dipenderà anche dalla nostra capacità di mobilitazione.