«Il mio cliente ha riferito da subito di essere un migrante come gli altri. Ha pagato 7mila euro. Per una parte di quei soldi abbiamo la ricevuta di un money exchange», afferma l’avvocato Salvatore Perri. È stato nominato difensore d’ufficio di Arslan Khalid, 25 anni nato in Pakistan. Il ragazzo è accusato di essere uno degli scafisti del barcone naufragato a Steccato di Cutro domenica 26 febbraio. È in carcere a Crotone. Sono sottoposti a misura cautelare anche due turchi, di cui uno minorenne. Un quarto uomo, sempre originario della Turchia, è ricercato.

A puntare il dito contro di loro sono quattro testimoni: tre sopravvissuti afghani e uno siriano. Paradossalmente sono indagati anche loro, per ingresso illegale nel territorio dello Stato. Cioè il reato di immigrazione clandestina introdotto nel 2009 (prevede un’ammenda tra 5mila e 10mila euro).

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Le accuse verso i turchi sono nette: guidavano il caicco. Khalid, invece, avrebbe aiutato nella gestione dei migranti a terra, prima dell’imbarco, e poi a bordo. Contro di lui c’è una foto che lo ritrae sulle coste turche insieme al minorenne indagato. Il ragazzo pakistano ha negato tutte le accuse e sostiene di poterlo provare: con la ricevuta di 4.500 euro pagati a un’agenzia del suo paese e con un messaggio vocale inviato dal cellulare dell’uomo che guidava la barca per sbloccare gli altri soldi, depositati in Turchia. Al di là dei ruoli, su tutti gli indagati pendono le stesse ipotesi di reato: favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, naufragio colposo e morte come conseguenza di altro reato.

Nell’ambito del procedimento penale saranno stabilite le eventuali responsabilità individuali. A livello generale, però, c’è da rilevare una sistematica ambiguità che riguarda la figura dello scafista. Figura distinta da quella del trafficante, che rimane a terra e incassa i proventi principali. Figura a cui i migranti generalmente si riferiscono come «capitano». Il primo studio sistematico sulla criminalizzazione di chi guida i barconi è stato pubblicato nell’ottobre 2021: Dal mare al carcere, a cura dell’Arci Porco Rosso di Palermo e Alarm Phone. Dentro ci sono i dati su 2.500 persone arrestate dal 2013 con l’accusa di essere scafisti. Nel 2022 le stesse associazioni hanno accertato altri 264 casi, sebbene ne stimino 350. Dopo l’invasione ordinata da Putin hanno notato, nelle traversate dello Ionio, una sostituzione degli skipper ucraini con quelli russi e poi con i turchi.

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Oleksandr Krasiukov era un cittadino ucraino di 43 anni arrestato per favoreggiamento dell’immigrazione subito dopo lo sbarco. Ha patteggiato 3 anni e mezzo, ma è morto nel carcere di Catanzaro il 17 febbraio scorso. Gli attivisti dell’Arci non sanno se fosse in fuga dal conflitto o dall’arruolamento, ma solo che in Italia viveva la madre. Profuga di guerra. Un caso eclatante è quello di Ahmad Jawid Mosa Zada, procuratore afghano fuggito dai talebani e arrivato in Italia a maggio 2021 su un barcone carico di 230 persone. È stato accusato da tre passeggeri di aver guidato il mezzo ed è finito in prigione, sempre a Catanzaro. Ha negato le accuse, ma è ancora in attesa di processo.

«Su tutte le rotte del mare ci sono dinamiche simili: sono additati come “scafisti” uomini costretti a mettersi alla guida con la violenza o sotto la minaccia delle armi. Altri che lo fanno perché non hanno modo di pagare il viaggio. Ovviamente c’è anche chi riceve un compenso», dice Richard Braude, dell’Arci di Palermo. Attivisti e consulenti legali denunciano come tantissimi casi siano segnati dall’erosione delle garanzie processuali e dei diritti di difesa, dall’utilizzo di prove sommarie e da grandi problemi con gli interpreti. «Bisogna vedere se nelle traversate si verificano violenza o sfruttamento, ma il problema principale – continua Braude – è che più si criminalizza chi guida la barca, più il viaggio diventa pericoloso. Lo confermano le testimonianze dei sopravvissuti all’ultima strage: il tentativo di sottrarsi all’arresto di chi era ai comandi ha contribuito al naufragio».

Il governo, comunque, sembra intenzionato a tirare dritto. Subito dopo la tragedia di Cutro ha puntato il dito contro trafficanti e scafisti, spesso confondendoli. Nel prossimo consiglio dei ministri che si terrà nel crotonese dovrebbe discutere di decreto flussi e stretta contro chi organizza le traversate. La strategia non è nuova.

Un’inchiesta di Lorenzo D’Agostino e Zach Campbell, pubblicata nel 2021 su The Intercept e Internazionale, ha ricostruito come dal 2013 in Italia, sotto la guida della Direzione nazionale antimafia, si sia tentato di mettere fine ai flussi migratori «con gli stessi metodi usati contro la criminalità organizzata». L’idea era arrestare gli scafisti e da lì risalire ai trafficanti per sgominare le reti del traffico. Non ha funzionato, ma intanto nella rete sono finiti i pesci piccoli. Condannati a decine di anni di carcere. Persone spesso costrette a guidare dallo stato di necessità (che recentemente i tribunali stanno iniziando a riconoscere).

In ogni caso la tesi secondo cui un fenomeno sociale di grande portata come le migrazioni internazionali si possa fermare attraverso gli strumenti del diritto penale è smentita in primis dagli sbarchi: nonostante migliaia di «capitani» arrestati non si sono mai interrotti.