La nota casa farmaceutica Johnson & Johnson e i tre maggiori distributori di oppioidi da prescrizione degli Stati uniti (McKesson, AmerisourceBergen e Cardinal Health), con un accordo annunciato il primo febbraio scorso, hanno concordato di pagare 590 milioni di dollari ai nativi d’America e dell’Alaska (per il censimento Usa del 2018 pari a 6,8 milioni di persone).

Già nel settembre scorso quei distributori avevano accettato di versare oltre 75 milioni di dollari per chiudere il contenzioso che li vedeva sotto accusa per aver alimentato un’epidemia di oppioidi tra i Cherokee dell’Oklahoma (oltre 390mila abitanti).

È STATO IL PRIMO accordo con un governo tribale negli analoghi contenziosi avviati dai nativi in dozzine di Stati degli Usa. Molti di questi sono stati poi riuniti in un maxi-procedimento giudiziario, in corso da anni presso il tribunale federale di Cleveland (Ohio), che vede circa 3mila querelanti (la maggior parte enti governativi) battersi per l’ondata di dipendenza e vittime provocate da una serie di farmaci psicoattivi con effetti farmacologici simili a quelli della morfina o di altre sostanze similari.

Per i Centri statunitensi per la prevenzione e il controllo delle malattie (Cdc), dal 1999 al 2019, gli oppioidi hanno causato negli Stati uniti almeno mezzo milione di morti per overdose, arrivando a superare anche le vittime da eroina.

Secondo diverse ricerche e studi messi agli atti dalle tribù, i nativi d’America e dell’Alaska hanno «subito alcune delle conseguenze peggiori rispetto a qualsiasi altra popolazione degli Stati uniti», incluso il più alto tasso pro capite di vittime. Ognuna delle 574 tribù riconosciute dal governo Usa potrà ora sottoscrivere l’accordo del tribunale dell’Ohio, anche se non tra quelle che hanno intentato la causa.

«Tutte le tribù sono entusiaste dell’accordo: a differenza di quanto avvenne negli anni Novanta con le multinazionali del tabacco stavolta siamo stati inclusi nei risarcimenti», spiega a il manifesto W. Ron Allen, presidente della Jamestown S’Klallam e rappresentante tribale in diversi dipartimenti del governo Usa.

«PICCOLE TRIBÙ come la nostra non riceveranno molti fondi, ma li impiegheremo in un progetto volto a fornire assistenza e trattamenti socio-sanitari alle persone dipendenti dagli oppioidi o che abusano di sostanze», assicura Allen.

Canta vittoria anche il loro avvocato Geoffrey D. Strommer che, oltre alla Jamestown S’Klallam, nel contenzioso rappresenta una dozzina di altre realtà tribali: «Siamo molto soddisfatti degli accordi economici proposti – spiega il legale a il manifesto – Sono un risultato storico e gettano le basi per futuri accordi e contenziosi, tanto che andremo avanti per far ritenere produttori, rivenditori e altri soggetti coinvolti responsabili di aver creato e alimentato la crisi degli oppioidi che continua a devastare gli indiani d’America».

A SUO DIRE, il loro «impatto sui bambini nativi americani è particolarmente devastante. Nel 2012 uno su dieci di età pari o superiore a 12 anni – continua il legale – ha utilizzato oppioidi da prescrizione per scopi non medici, il doppio rispetto ai giovani bianchi e tre volte quello degli afroamericani.

I bambini nativi soffrono di maggiori tassi di astinenza, anche neonatale, rispetto a qualsiasi altro gruppo razziale o etnico». Per Strommer «la crisi degli oppioidi ha infine esaurito la forza lavoro delle imprese tribali, diminuendo la produttività, aumentando i costi amministrativi e facendo perdere opportunità di crescita e sviluppo tribale».

Lloyd B. Miller, avvocato che nel contenzioso rappresenta circa il 30% di tutte le comunità tribali indiane in America, per numero di loro componenti, a il manifesto esprime pochi dubbi circa la responsabilità della casa farmaceutica e dei distributori con cui è stato raggiunto questo accordo: «Johnson & Johnson, come tutti gli altri produttori, ha erroneamente presentato alla comunità medica e al pubblico i propri oppioidi come farmaci che non provocavano dipendenza, indicati per il trattamento del dolore cronico e minore».

Ci sono poi i tre distributori McKesson, AmerisourceBergen e Cardinal Health, che per la corte «avrebbero distribuito più dell’80% dei farmaci in questione e per questo imputati nella maggior parte dei casi».

PER L’AVVOCATO Miller, questi, «non sono riusciti a mettere in atto e a far rispettare le procedure: avrebbero dovuto segnalare le richieste eccessive di oppioidi da prescrizione da parte delle farmacie, fermando quindi la vendita di quella valanga di pillole, cosa che non hanno fatto perché c’era tanto profitto da realizzare».

Dal canto loro, le aziende chiamate in causa respingono le accuse. Il giorno stesso dell’annuncio di questo accordo, Johnson & Johnson si è ad esempio affrettata a chiarire in una nota che la scelta di pagare «non costituisce ammissione di alcuna responsabilità o illecito e la società continuerà a difendersi da qualsiasi altra controversia».

Per l’avvocato Strommer una prassi ormai consolidata anche a livello formale, visto che «negli Stati uniti spesso questi accordi contengono formule che consentono a una o più parti di non assumersi la responsabilità delle accuse».

La scelta delle aziende di chiudere le controversie con accordi economici, parlerebbe però da sola per il suo collega Miller, che ricorda «tra i più significativi, uno da cinque miliardi di dollari di Johnson & Johnson con gli Stati e i loro enti locali, un altro da 21 miliardi di dollari tra distributori e governo federale, quello dell’Oklahoma con la Purdue e vari altri con i produttori per le controversie di New York e del West Virginia».

ANCHE LO STESSO maxi-procedimento in Ohio non si è chiuso con questi 590 milioni di dollari concessi ai nativi americani: «Per le rivendicazioni tribali contro diversi altri imputati, tra cui quelle contro le principali catene di farmacie (CVS Health, Walgreens Boots Alliance e Walmart, nda), i produttori Teva, Allergan, Endo e, in un caso separato, la società di consulenza McKinsey, o si andrà a processo – conclude Miller – o anche queste saranno risolte mediante analoghe transazioni».