C’è qualcosa di nazista nelle tattiche terroristiche promosse dall’Isis. Colpire la folla dei concerti, composta da adolescenti e da ragazzini o bambini, a Parigi o Manchester, per fare più vittime possibile, significa mirare alla popolazione civile, perché se ne stia a casa e non faccia uscire i figli.

Allo stesso modo, gli attentati di Nizza e Berlino e tanti altri avevano lo scopo di far rinunciare alla partita del sabato o della domenica, alla festa in piazza, a prendere un treno o a salire su un aereo.

Per quanto i lutti siano atroci, questa è la conseguenza strategica più grave della guerriglia contro le popolazioni dell’occidente: farle vivere perennemente nella paura.

Gli appelli dei governi del tipo «la vita deve continuare come prima» o «combattiamo la paura» sono inevitabili, ritualistici e inutili. Possono ben poco contro un terrorismo ubiquo, probabilmente in franchising, i cui attori sono per lo più cittadini europei da lunga data (con buona pace di Le Pen e Salvini, che se la prendono con i migranti). Gente che può aver combattuto in Siria, Libia o Iraq per l’Isis o qualche altra sigla, ma che forse è anche composta di sbandati delle banlieue o di quartieri satellite che decidono di fare il salto della morte per la morte, in nome dell’Islam, dell’odio per la loro esistenza o dell’occidente.

A onta tutta la loro sorveglianza, degli infiltrati, dei monitoraggi delle moschee e degli imam estremisti, nonché delle espulsioni dei sospetti, i servizi occidentali non sembrano in grado di mettere le mani in questi mondi circoscritti, ma dissimulati e sfuggenti. E capaci di rinnovarsi in continuazione. Ma manca anche un’analisi della strategia dell’Isis, senza la quale nessuna contromisura politica efficace può essere davvero presa.

Ora, è abbastanza evidente che l’Isis, attraverso l’organizzazione o la rivendicazione degli attentati, vuole provocare i governi occidentali, perché reagiscano scompostamente, facciano arresti nel mucchio, magari decidano qualche nuovo intervento militare contro l’Isis.

E soprattutto perché attacchino l’Islam in quanto tale, come predicano Le Pen, Salvini, Farage e tanti altri. Aumentando così un risentimento che, per quanto minoritario, può alimentare il reclutamento di terroristi, kamikaze o no che siano.

In questo senso, il «muslim ban» di Trump ha già fatto danni enormi, anche se bocciato dalle corti federali americane. Ma anche la sua incursione in Arabia saudita è molto meno astuta di quanto non pensino i trumpiani, anche in Europa. Certo, The Donald ha firmato contratti miliardari, vendendo armi che finiranno in Yemen e, forse, per vie traverse e oscure, nelle mani dell’Isis.

Nello stesso momento in cui chiede di cacciare i terroristi Donald Trump riconosce il coinvolgimento dei governi arabi, a cui però fornisce armi di ogni tipo. Poi, scagliandosi contro l’Iran e gli sciiti, fa una bella piroetta in chiave anti-iraniana e anti-siriana, cioè anti-russa. Una strategia velleitaria e contraddittoria, che radicalizza quella dei neo-cons di Bush.

Una strategia che inevitabilmente porterà all’inasprimento della guerra in Siria e nello Yemen, e forse in Libia, e a ulteriori conflitti con Putin. L’Isis non chiede di meglio che la radicalizzazione dei conflitti, perché questo è il suo terreno di propaganda e reclutamento.

Con la conseguenza di minacciare ulteriormente la nostra vita quotidiana.

Infatti, se il terrorismo colpisce qui, le sue leve sono nei campi di battaglia siriani, iracheni, yemeniti e libici. Chissà se a Taormina qualcuno dei piccoli leader europei avrà il coraggio di dirlo al nuovo e lunatico padrone del mondo. C’è da dubitarne.