Mentre nelle autoproclamate repubbliche del Donbass si decide se fucilare o impiccare i prigionieri di guerra e a Mosca la lucida follia imperiale di Putin continua a insanguinare e distruggere l’Ucraina, nei paesi europei la vita politica e parlamentare, per fortuna, continua con i suoi appuntamenti democratici. Oggi la Francia va al voto per le legislative dopo la riconferma di Macron all’Eliseo, mentre in Italia si aprono i seggi delle amministrative e dei referendum. Rituali di una libertà politica mai abbastanza apprezzati.

Le elezioni amministrative e i referendum nulla hanno in comune, ma su richiesta delle nove regioni di centrodestra e dei radicali, i cinque referendum sulla giustizia sono abbinati ai rinnovi dei consigli comunali nella speranza di agguantare il quorum, trainati dall’affluenza del voto locale.

Obiettivo difficile per due motivi: la crescita dell’astensionismo in tutte le ultime votazioni, e la bocciatura da parte della Corte costituzionale degli unici due referendum (eutanasia e cannabis) di facile e immediata comprensione per i cittadini: una tagliola che proprio sulla partita del quorum ha messo un macigno. Perché i quesiti sulla giustizia sono complessi e persino indecifrabili. Ma addebitare un insuccesso alla mancanza di informazione è una parziale verità che non vuole vedere i limiti di questo uso del referendum.

Innanzitutto l’incongruenza di spendere (e svalutare) uno strumento importante di democrazia diretta chiedendo un sì o un no a questioni di scarsa rilevanza e difficile lettura (le firme per i candidati al Csm). Peraltro i quesiti sono stati o accompagnati da una propaganda ingannevole, come sul nostro giornale ha ben argomentato il giurista Domenico Gallo a proposito della “legge Severino” e delle “misure cautelari”.

Dunque la bocciatura dei referendum è prevedibile oltre che auspicabile visto che non sono stati promossi per migliorare l’iniquità della giustizia italiana, ma soprattutto per sottoporre i magistrati al potere politico.

Dove invece si fermerà l’asticella della partecipazione per lo squadrone dei quasi mille sindaci da eleggere è difficile prevederlo. L’attenzione e l’impegno delle forze politiche si sono concentrati su questa prova amministrativa, anticamera e preludio di quel che avverrà nella primavera del 2023 con le elezioni politiche.

Anche se si tratta di un voto parziale che impegna circa 9 milioni di elettori, per il momento in cui cade, tra una guerra e lo spettro di uno choc economico, e per l’importanza della distribuzione geografica, da Verona a Genova da l’Aquila a Palermo, le amministrative rappresentano una sfida importante anche per un’altra ragione: questa volta chi vince avrà a disposizione la miliardaria dote che gli enti locali riceveranno dai fondi del Pnrr per migliorare, si spera, la vita di piccole e grandi città. Una pioggia di denaro che offre un motivo in più per dire no al referendum sulla “legge Severino”: se venisse cancellata verrebbe indebolito il controllo sulla trasparenza e il controllo di legalità della pubblica amministrazione.

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Naturalmente oltre ad avere un valore elettorale, il voto di oggi ha un significato strettamente politico sulle sfide “nelle” e “tra“ le coalizioni, nel centrodestra come nel centrosinistra. Nel centrodestra, Meloni punta al sorpasso nei voti di lista e porta la competizione per la leadership nel regno leghista del profondo nord (Verona, Como, Alessandria), tentando di vincere poi anche al centro (Parma e l’Aquila), con l’obiettivo ultimo di candidarsi alla presidenza del consiglio nella gara all’ultimo voto con Salvini. Con un ruolo ancora indecifrabile del partito di Berlusconi per le feroci rivalità interne a Forza Italia.

Facile dedurne che il politico a rischiare di più è il leader leghista al quale verrebbe addebitato sia il flop referendario che quello elettorale. Nel qual caso sarebbe interessante capire le possibili conseguenze sull’anomala coalizione guidata da Draghi, già in forte fibrillazione per gli smarcamenti di Conte e di Salvini. Una loro sconfitta farebbe saltare il governo? Si andrebbe alle elezioni anticipate come chiede Meloni?

Nel centrosinistra invece il problema è totalmente diverso. Una debole prestazione del M5S di Conte metterebbe in fibrillazione la tenuta dell’alleanza con il partito di Letta. Sicuramente le basse percentuali pentastellate non sarebbero una novità visto che le amministrative sono sempre state il tallone di Achille dei 5Stelle. In molti capoluoghi di provincia l’alleanza Pd-M5S mette alla prova il cosiddetto “campo largo”: si tratta di un vero test.

Un risultato deludente porterebbe acqua al mulino di chi, in odio ai 5Stelle, da Calenda in giù, vuole sfasciare la coalizione senza peraltro sapere come sostituire quel 15% che comunque, al momento, i sondaggi assegnano al partito di Conte alle elezioni politiche. Il Pd che, sulla carta, ha poco da perdere, mette le mani avanti sottolineando il fatto che si parte da 20 comuni amministrati dal centrodestra e 5 dal centrosinistra. Un comune in più strappato allo schieramento avversario sarà salutato come una vittoria.

In ogni caso qualunque sarà l’esito del voto, una sconfortante conferma dell’arretratezza politica di questa classe dirigente c’è già: nelle 26 città capoluogo, su 60 aspiranti alla carica di sindaco le donne sono 15, una su quattro.